di Paola Dubini

Come è noto, gli enti no profit sono aziende di diritto privato che perseguono una finalità generale; nel bilanciamento fra finalità economiche e non economiche ai fini del raggiungimento della sostenibilità economica, il peso relativo della dimensione commerciale e di quella istituzionale varia a seconda della forma giuridica considerata.  Fra gli enti no profit, le imprese sociali sono organizzazioni che esercitano in via stabile e principale un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale. Pertanto, il loro fatturato può essere prevalentemente di natura commerciale e derivare dalla vendita di beni o servizi, che però sono legati alla loro missione sociale. Più che il peso relativo nella formazione dei ricavi, l’elemento qualificante è quindi dato dal fatto che l’attività commerciale è centrale per il raggiungimento della finalità sociale, e non semplicemente accessoria. Mentre l’affitto spazi di un centro culturale di quartiere è puramente finalizzato a facilitare il raggiungimento dell’equilibrio economico, la vendita di servizi è critica per il raggiungimento della missione aziendale di costruzione di posti di lavoro per persone svantaggiate (come avviene ad esempio in alcuni casi di servizi di ristorazione che occupano persone con disabilità o carcerate). Questa profonda commistione fra finalità di tipo economico e non economico permette di distinguere le imprese sociali dalle organizzazioni non profit tradizionali, vincolate dall'articolo 6 del Codice del Terzo Settore a una percentuale massima di ricavi commerciali pari al 30% o dei costi complessivi al 66%. E al tempo stesso le rende diverse dalle imprese, in particolare dalle società benefit, per missione – le imprese sociali sono vincolate ad un impatto sociale e al reinvestimento degli utili, mentre le imprese benefit destinano volontariamente una parte di risorse a finalità sociali – e per modello di ricavi.

Un altro aspetto importante da considerare è la dimensione collettivistica degli obiettivi perseguiti. Il modello di impresa sociale rappresenta una possibile forma di gestione e valorizzazione di beni comuni nell’interesse di una collettività, come nel caso di imprese sociali che operano nel settore dell’economia circolare o della rigenerazione urbana e che si occupano della gestione sostenibile di risorse naturali e spazi condivisi trascurati. Ancora, progetti che promuovono l’inclusione lavorativa o la solidarietà intergenerazionale sono esempi concreti di come questo tipo di impresa gestisca risorse relazionali condivise.

Il fatto di introdurre approcci orientati al mercato per risolvere problemi di natura sociale, o d’alto canto di gestire economicamente risorse di una collettività o di lavorare per la soluzione di un problema comune  rappresenta indubbiamente una innovazione, in un periodo di progressivo ridimensionamento del welfare state e di riduzione dei servizi pubblici essenziali, da un lato, di  aumento quantitativo e di varietà dei  bisogni di natura sociale dall’altro, e di emergere di bisogni la cui soluzione richiede un approccio contemporaneamente pragmatico e orientato ai risultati, ma che privilegia il risultato per la collettività rispetto a quello per i singoli. In campo culturale, la presenza delle imprese sociali ha permesso di intervenire in mercati del lavoro particolarmente fragili e caratterizzati da asimmetrie informative.

La regolamentazione a livello europeo, con il Regolamento (UE) n. 1296/2013 sul programma per l'occupazione e l'innovazione sociale (EaSI) e in Italia il DL n. 155/2006, e successivamente la  riforma del terzo settore hanno contribuito a rendere visibile il ruolo delle imprese sociali nell’economia, ad esempio in termini numerici: secondo stime  della European Social Enterprise Monitor (ESEM), in Europa si contano nel 2017 2,8 milioni di imprese sociali, che rappresentano circa il 10% del totale delle imprese (file:///Users/mbpro/Downloads/European-Social-Enterprise-Monitor-2021-2022.pdf pag 26) e generano oltre 13 milioni di posti di lavoro. In Italia, le imprese sociali registrate al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS) al 31/12/2023 sono circa 24.000, pari a quasi il 20% degli iscritti. Tuttavia, occorre a mio parere guardare con occhio un po’ più benevolo e attento a questo tipo di organizzazioni; a me pare che le imprese sociali ad oggi siano un po’ troppo spesso considerate imprese e non abbastanza sociali. Nel riconoscimento del loro portato innovativo sta la possibilità di valutare la quantità e la qualità delle loro ricadute da un lato ed evitare comportamenti opportunistici o autoreferenziali.

Un equilibrio complesso

Un modo per guardare contemporaneamente con sufficiente generosità e disincanto al contributo delle imprese sociali sta nel riflettere sul loro modello economico e istituzionale. L’equilibrio economico delle imprese sociali è realizzato attraverso:

·       La realizzazione di attività economiche connesse alla missione sociale

Rispetto alle imprese, gli ambiti di attività delle imprese sociali sono in genere strutturalmente meno redditizie; la presenza di una missione di natura sociale pone limiti alle strategie di prezzo, rendendo difficile la massimizzazione della redditività. Inoltre, spesso il raggio di azione delle imprese sociali è prevalentemente locale e la scalabilità del loro modello di business limitata. Mi pare utile incentivare e premiare la crescita economica, e piuttosto essere critici sul mantenimento dell’obiettivo sociale e sulla sua progressiva articolazione. 

·       Diversificazione delle fonti di finanziamento

Oltre ai ricavi derivanti dalla vendita di beni e servizi, molte imprese sociali accedono a contributi pubblici, fondi europei, donazioni private e campagne di crowdfunding. Questa diversificazione è essenziale per ridurre la dipendenza da una singola fonte di reddito, ma l’attività di fundraising da un lato e quella di rendicontazione dall’altro assorbono quantità spropositate di energia e generano poco apprendimento sia per l’impresa sociale sia per il sistema di finanziamenti. In particolare, per quanto riguarda il rapporto con i donors privati, mi pare che sarebbe necessario equiparare le imprese sociali agli altri enti no profit, per esempio per quanto riguarda deducibilità dei contributi e 5 per mille.

·       Partnership pubblico-private

Le imprese sociali collaborano frequentemente con enti pubblici e aziende private per realizzare progetti di impatto collettivo. Tuttavia, il contesto istituzionale è complesso, come per tutti gli enti no profit. La doppia natura di enti a vocazione sociale attraverso attività economiche colloca le imprese sociali a metà strada tra il settore profit e il non profit: da un lato, devono perseguire finalità istituzionali definite; dall'altro, operano come imprese, generando ricavi per autofinanziarsi e ampliare il loro impatto. Questo genera talvolta equivoci e richiede di sostenere “costi di educazione degli stakeholder”. Inoltre, dimostrare il valore sociale generato è fondamentale per ottenere supporto finanziario, ma richiede un grosso investimento in fiducia e trasparenza. La sostenibilità economica delle imprese sociali non è solo una questione di efficienza gestionale, ma anche di coerenza etica. Il loro valore aggiunto risiede nella capacità di mantenere un equilibrio virtuoso tra impatti sociali e performance economica. Tuttavia, questo equilibrio è fragile e richiede una governance attenta, competenze diversificate e un ecosistema normativo e finanziario che ne supporti lo sviluppo.

La centralità della dimensione istituzionale

La necessità di combinare finalità istituzionali e sostenibilità economica richiede alle imprese sociali una particolare attenzione. Il loro successo non si misura solo in termini finanziari, ma anche attraverso il valore sociale creato per le comunità e gli individui che servono. Questo richiede loro di gestire rapporti con una molteplicità di attori anche molto diversi fra loro e a fungere da piattaforme di natura sociale. Sono equilibri che si costruiscono nel tempo, che richiedono continuo investimento, data la varietà degli interlocutori e delle istanze di cui sono portatori. Non sempre l’insieme degli interlocutori riconosce il valore di sistema costruito dall’impresa sociale e quindi lo da per scontato e non è disposto a condividerne i costi; le imprese sociali devono bilanciare una governance democratica e partecipativa con la necessità di operare in modo efficiente. Al tempo stesso, la missione sociale deve rimanere al centro, evitando che le dinamiche economiche prevalgano sulla natura collettiva del loro operato. La governance rappresenta quindi uno degli aspetti più cruciali per le imprese sociali. L’equilibrio tra le finalità istituzionali e le attività economiche, alimentato da relazioni solide e collaborative con una vasta gamma di stakeholder richiede una  gestione partecipativa, un atteggiamento trasparente e flessibile; governare risorse condivise senza escludere, evitando che alcuni prevarichino o che i beni comuni siano privatizzati, generando valore condiviso e sostenibilità economica per sé è operazione faticosa, talvolta frustrante e soggetta a continui rischi di free riding. Uno degli aspetti più delicati della governance è trovare un equilibrio tra la necessità di prendere decisioni rapide ed efficienti, tipiche delle dinamiche imprenditoriali, e il coinvolgimento democratico degli stakeholder. La chiarezza di rapporti è fondamentale; la necessità di essere flessibili non va confusa con l’ambiguità e la difficoltà di monetizzare i costi della gestione di sistema non può ridurre il livello di trasparenza.

Perché serve un occhio benevolo

Le imprese sociali rappresentano una risposta imprenditoriale in un momento storico caratterizzato da crescenti disuguaglianze, contrazione del welfare pubblico, frammentazione dei bisogni sociali e necessità di modelli istituzionali per gestire questioni sistemiche. Con il loro modello ibrido, cercano di unire l’efficienza e la sostenibilità del mercato con la missione etica di creare valore per la collettività, spesso agendo come piattaforme di gestione condivisa di beni comuni, materiali e immateriali. Tuttavia, la loro natura duale le espone a rischi e sfide significative: la pressione per generare ricavi e la presenza di rendite di può compromettere l’obiettivo sociale, mentre il valore di sistema che esse costruiscono rischia di essere sottovalutato o dato per scontato dai diversi stakeholder. La capacità di costruire una governance solida, trasparente e partecipativa, che bilanci la flessibilità imprenditoriale con il coinvolgimento degli interlocutori non riguarda solo le imprese sociali, ma anche i loro interlocutori, che devono essere pronti a rispondere con fiducia ad investimenti in fiducia e trasparenza.

Questi elementi di specificità rendono necessario un ecosistema normativo e culturale che supporti le imprese sociali, riconoscendone il ruolo nell’economia e nella società. Spesso la specificità delle imprese locali impatta sulla loro possibilità di crescita oltre ad una dimensione locale; la gestione degli stakeholder è faticosa e spesso rende difficile la scalabilità del modello di business. Anche questo è un aspetto da tenere in considerazione. Il senso del modello delle imprese sociali è la possibilità di coniugare l’essere attori economici, ma anche strumenti di coesione sociale e sperimentazione civica. In questa prospettiva, mi sembra vantaggioso, oltre che necessario, sostenerle, perché possono rappresentare un possibile modello sostenibile per un’economia che integra il profitto con la responsabilità, il mercato con la solidarietà, e l’innovazione con il valore collettivo.


Paola Dubini è professoressa di management all’Università Bocconi di Milano e coordinatrice del gruppo trasversale cultura per lo sviluppo sostenibile ASviS. Studia le condizioni di sostenibilità delle organizzazioni culturali, private, pubbliche e no profit e le politiche culturali in una prospettiva di sviluppo sostenibile. Siede nel cda di diversi enti culturali.