di Paolo Mele

La mia mente d’altrove profondava nel Sud del Sud dei Santi; ma depensata lieve mongolfiera in celeste balìa sull’infinito del mare stanco[1]

 

Ai nuovi estimatori del Salento da cartolina e agli ormai milioni di visitatori temporanei del Tacco dello Stivale, la definizione di Terra Estrema applicata al Capo di Leuca potrebbe sembrare un po’ esagerata.

Cosa ci sarebbe di così estremo in un territorio che è ormai considerato come una delle principali mete turistiche al mondo e con un’offerta attrattiva, culinaria e paesaggistica di primo piano?

Difficile trovare qualcuno che abbia visitato questi luoghi e non ne sia rimasto affascinato.

Eppure, la storia e la geografia ci raccontano un’altra vicenda. Ci raccontano di una terra povera, martoriata dalle emigrazioni di uomini e donne in cerca di lavoro, di una vita più dignitosa, di fortuna. Di una terra isolata, remota, con poche e spesso malfunzionanti infrastrutture.

Indagine sulle terre estreme[2]

L’Indagine sulle terre estreme condotta da Ramdom nasce, nel 2014, da queste fondamenta. Un progetto aperto in cui artisti, studiosi, curatori, operatori culturali e cittadini si confrontano sul tema della produzione artistica in contesti remoti e marginali, dando vita a lavori site specific e a una nuova mappatura del territorio. Un processo di analisi su la vita, la cultura, la socialità nelle estremità e negli estremismi delle terre.

Oggi, parlando di terre estreme il pensiero va subito a luoghi in cui le condizioni climatiche e ambientali sono impervie e mettono continuamente alla prova le abilità dell’uomo, che, per istinto di sopravvivenza, a esse si adatta e si modella. Il termine “estremo” (dal latino extremus, superlativo di exter o extĕrus «che sta fuori»), nella sua accezione primaria, non fa riferimento alle condizioni avverse, bensì a ciò “che è o rappresenta il termine ultimo, in senso locale o temporale, di qualche cosa”. Nelle lingue anglosassoni, invece, si è soliti parlare di Land’s end: se ne contano quasi due decine in tutto il mondo, alcuni più noti altri meno. Non a caso, nel passato erano considerate estreme quelle terre che segnavano la fine dell'impero o delle terre conosciute, come nel caso dei Finis terrae dell’Impero Romano: dal Capo di Leuca, alla Bretagna, alla Galizia. Oltre, l’ignoto, l’orizzonte sconosciuto, il mare senza fine.

La nostra riflessione parte da qui, dalla fine. O dal Capo. Dalla fine dei binari ferroviari, quei binari sui quali, dal 2015 al 2020, c’era la nostra casa, Lastation[3] -  al punto in cui la roccia si tuffa nello Ionio protendendosi verso il sud del mondo, e oltre.


Se nel 2009, quando abbiamo cominciato a scrivere la storia di Ramdom, ci fossimo fermati alla sola analisi della domanda di arte contemporanea in Puglia, e ancor più specificatamente nel tacco d’Italia, questa avventura non sarebbe mai nata.

I dati erano impietosi: non un museo di arte contemporanea; nessuna galleria; nessuna fondazione pubblica o privata a sostenere l’arte e la creatività giovanile; pochissimi spazi/esperienze artistiche di valore (e quelle poche perlopiù esclusive). Poca curiosità e, purtroppo, tanto provincialismo e un po’ di illegittima presunzione.

Tuttavia, il periodo storico sembrava interessante: il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola si apprestava ad una roboante riconferma, (anche) grazie a un programma incentrato sul potenziamento delle politiche, già avviate nel 2005, a sostegno di giovani, creatività, cultura e sospinto da un folto gruppo di “artisti per Nichi” che avevano caratterizzato una parte importante della “primavera pugliese”. Le iniziative volte alla promozione della cittadinanza attiva, della creatività e della rigenerazione si moltiplicavano, grazie anche alle misure di Guglielmo Minervini, lungimirante Assessore alle Politiche Giovanili che nel 2008 lanciò un programma di sostegno alla realizzazione di progetti giovanili e alla creazione di associazioni o imprese chiamato Principi Attivi: 25mila euro ad organizzazione o gruppo informale per avviare un progetto innovativo e scommettere sul rientro in Puglia e sulla “restanza” dei giovani[4].

Proprio raccogliendo questa sfida, nel febbraio 2010 nasce Ramdom, con il primo specifico obiettivo di realizzare Default: un ambizioso progetto di “Masterclass in residence” che portasse a un serrato confronto di dieci giorni venti artisti selezionati tramite call (un quarto dei quali pugliesi) e dieci ospiti tra artisti, curatori e direttori di prestigiose istituzioni italiane e straniere. L’idea era quella di dare l’opportunità al territorio e ai nuovi aspiranti artisti pugliesi di confrontarsi con una dimensione internazionale, di aprirsi al mondo. Le prime due edizioni di Default ebbero un successo di partecipanti notevole, grazie anche alla qualità degli ospiti invitati e ad un ricco programma di eventi collaterali[5], ma non eravamo ancora abbastanza estremi.

E allora, da Lecce, decidemmo di spostarci ancora più a sud, nella punta del tacco, a Gagliano del Capo, e di inaugurare la stagione dell’Indagine sulle Terre Estreme Artisti e ricercatori hanno cominciato a farci visita, a trascorrere delle residenze di ricerca e produzione, di indagine di un territorio e delle sue componenti umane e naturali.

Gagliano del Capo è un paese di circa 5000 anime, circondato da piccoli paesi della stessa grandezza, ma solo a nord-ovest; ad est e a sud solo mare. Un’area remota e periferica d’Italia, tecnicamente area interna, formalmente area esterna. Se lavorare con l’arte contemporanea in città era complesso, farlo a partire da un piccolo paesino periferico era estremo. Ma in quella condizione estrema ci eravamo nati[6], e forgiati, e ne conoscevamo già pregi e difetti, minacce e opportunità. Se estrema doveva essere, tanto valeva dare un tocco di “esotico”.

La metodologia di lavoro

Lavorare nell’ultimo villaggio del tacco d’Italia o nel primo a nord ovest, per molti aspetti non fa troppa differenza: ciò che conta è sempre l’approccio e la metodologia, il dialogo con i territori e con i suoi protagonisti attivi e passivi. Il cielo, che lo si guardi dall’osservatorio di Milano o di Salve (LE) è sempre lo stesso, a cambiare è la prospettiva e, dunque, le possibilità interpretative. Vi è certamente una differenza sostanziale tra operare nella città o nel piccolo centro, ancor più se remoto e geograficamente più vicino a Grecia e Albania che al resto d’Italia. Di fatto siamo una penisola nella penisola, questa condizione, oltre ad aver amplificato l’idea di essere un territorio periferico, ha suggestionato e alimentato la nostra ricerca e la nostra narrativa, offrendo tanti spunti di riflessione e lavoro a noi e agli artisti.

Gli artisti con cui abbiamo collaborato nel corso di questi anni, seppur talvolta anche molto diversi tra loro per approccio di lavoro e medium, hanno in comune la capacità di saper andare in profondità nello studio dei territori, delle comunità, di sapersi mettere in discussione, di riuscire a rinegoziare la propria pratica sulla base degli stimoli assorbiti durante i processi di residenza. Non siamo una galleria, la nostra priorità non è l’opera-ficio, bensì la produzione di contributi critici e di qualità nel panorama della cultura contemporanea. Ai nostri ospiti chiediamo di aiutarci a riflettere su temi che impattano sulla vita di un territorio che, sebbene si trovi nell’estrema periferia d’Italia, deve continuamente misurarsi con temi di grande attualità come quelli legati alle migrazioni culturali, allo spopolamento, alla sostenibilità, al turismo di massa e non per ultimo anche ai soldi delle società che, distribuendo sponsorizzazioni, cercano di comprare la benevolenza di un territorio e dei suoi cittadini, mentre lo violentano.

I lavori di Andreco, Carboni, Coclite, Andrew Friend e Brett Swenson hanno creato le fondamenta del processo, partendo dall’analisi del confine, del paesaggio umano e naturale, dei fallimenti, dell’abbandono. Poi siamo scesi sottoterra, con il lavoro di Carlos Casas e Matthew Wilson, per poi ritornare alla società, con Romina De Novellis, ai delicati equilibri tra uomo e natura, con Elena Mazzi e Rosario Sorbello. Ma la lista sarebbe molto più lunga, e oggi contiamo oltre cento ospiti che ci hanno aiutato in questo lavoro.

Gli spazi sono come figli

Lastation ha dato una svolta improvvisa alle attività e alle progettualità di Ramdom: nuove opportunità di lavorare e interagire con il territorio, ma anche nuove responsabilità pubbliche e private. Gli spazi sono come figli, ancor più gli spazi pubblici: occorre prendersene cura in ogni aspetto, dall’affitto alle utenze, dalla manutenzione alla gestione. E quello di Lastation era uno spazio dismesso e abbandonato da quasi 30 anni, in uno stato di degrado avanzato e con tutti gli impianti da rifare. In pochi mesi, grazie al supporto di amici e familiari, siamo riusciti in un’impresa che sembrava impossibile e allo stesso tempo avevamo messo le basi di un lavoro di cui ancora non avevamo capito l’importanza e le ricadute che avrebbe avuto sul nostro futuro.

Lastation ci ha fatto vivere momenti straordinari, è stato un laboratorio, un avamposto di produzione culturale e artistica. C’è chi sostiene che spazi e progetti “indipendenti o interdipendenti” come i nostri siano le nuove avanguardie dell’arte contemporanea, io credo che rappresentino invece una sorta di terzo paesaggio dell’arte: entità che colmano dei vuoti sociali e istituzionali, he nascono in territori complessi, rocciosi, caratterizzati spesso dall’incuria politica e dalla poca sensibilità istituzionale, ma in cui, per qualche motivo, le nostre progettualità attecchiscono come rampicanti.

La sostenibilità

Così come le rampicanti, in quanto piante sempreverdi, sono capaci di mantenersi sempre verdi e vitali anche durante l'inverno, così le organizzazioni che, come Ramdom lavorano nel sottobosco dell’organizzazione culturale in Italia quotidianamente sono chiamate ad un lavoro di resistenza culturale e di continua innovazione e creatività. Le risorse dedicate al settore sono poche, disomogenee e saltuarie. Nessuna misura o programma strutturale, tutto demandato alla giungla dei bandi pubblici dove, la guerra fratricida per le poche risorse, finisce spesso per frammentare, più che favorire, dinamiche di cocreazione e collaborazione. In questa giungla, Ramdom ha saputo giocare negli ultimi anni una partita importante, avendo l’abilità, la bravura e un pizzico di fortuna nel sapere intercettare misure di finanziamento che hanno consentito una progressiva crescita della base organizzativa e un tentativo di consolidamento del gruppo di lavoro attraverso forme contrattuali stabili. Non scontato nel quadro italiano, una rarità nel sud d’Italia.

Ma quello dei bandi è un meccanismo perverso, una roulette che non premia sempre e solo i migliori e soprattutto che ha delle dinamiche schizofreniche che rischiano di avere delle ripercussioni negative anche sulle organizzazioni, compreso quella che rappresento e che orami da oltre 10 anni, strenuamente, dirigo.

Ma sono più che mai consapevole che non può essere la sola strada.

Tuttavia, in attesa che il futuro dinanzi a noi diventi un po’ più chiaro, l’unica certezza che ho è che l’unica strada per la sopravvivenza è di perseverare in visioni e progettualità destabilizzanti ed “estreme”.

Oggi quella di Ramdom è una storia nuova, è quella di un’istituzione culturale che è cresciuta, offre lavoro a decine di persone e dal piccolo casello di Gagliano del capo si è trasferita nel grande “castello” di Castrignano de’ Greci, un antico palazzo baronale oggi diventato Kora – Centro del contemporaneo.

Qui, l’Indagine sulle terre estreme sta assumendo nuovi connotati e declinazioni, ma resta sempre forte l’accento di volersi confrontare, vivere e lavorare nella fragilità del territorio salentino, pugliese, mediterraneo. E da qui lanciare nuove sfide e nuovi sguardi al mondo intero.

Paolo Mele è fondatore di Ramdom, Dottore di Ricerca in Comunicazione & Nuove Tecnologie presso l’Università IULM di Milano e visiting researcher a The New School di New York (USA), Direttore di Ramdom e Kora – Centro del Contemporaneo e presidente di Stare – Rete Italiana delle Residenze Artistiche. Cultural manager, ha lavorato e collabora con diverse organizzazioni internazionali. È stato project manager per la BJCEM Biennale dei Giovani Artisti dall’Europa e dal Mediterraneo dal 2008 al 2012. Nel 2018-19 è tra i project manager di Matera Capitale della Cultura 2019


[1] Carmelo Bene

[2] Questo testo è frutto del rimaneggiamento di due scritti precedentemente pubblicati: Essere estremi in tempi estremi, pubblicato in Sino alla Fine del Mare, Paolo Mele, Claudio Zecchi (a cura di), Viaindustriae, 2018 e Dialogo fra Stefania Crobe, Paolo Mele e Claudio Zecchi in Per fare un tavolo, Arte e Territorio, Bianco Valente e Pasquale Campanella (a cura di), Postmedia, 2021

[3] Lastation è il nome dello spazio in cui Ramdom ha svolto le attività dal 2015 al 2020. Ultima stazione a sud-est d’Italia, Gagliano-Leuca, il centro culturale sorgeva in quella che anticamente era la casa del capostazione e che, grazie a un bando della Regione Puglia è stato riconvertita in un centro artistico e culturale che ha ospitato centinai di ospiti, artisti, mostre e progetti. Nel 2020, per volontà delle Ferrovie del Sud Est, lo spazio è tornato ad essere uno spogliatoio del personale https://www.ilsole24ore.com/art/lastation-stazione-d-arte-piu-virtuosa-d-italia-sfrattata-demanio-ADgfSow

[4] Principi Attivi è stato solo uno dei diversi progetti promossi all’interno di Bollenti Spiriti, un programma di azioni a sostegno delle politiche giovanili http://bollentispiriti.regione.puglia.it/

[5] Screening, mostre, performance: tanti gli eventi collaterali delle due edizioni del programma Default. https://www.exibart.com/speednews/il-salento-performativo-a-lecce-dieci-giorni-darte-con-default-13-dai-video-screening-ai-talks-passando-per-lazione-live-di-roberto-paci-dalo/

[6] Ramdom è stata fondata dal sottoscritto e dell’artista Luca Coclite, entrambi originari di Gagliano del capo (LE).