Franco Broccardi e Alberto Mantovani

FB: Prof. Mantovani, cercando qualcosa da cui partire per questa chiacchierata ho trovato alcuni punti di contatto tra noi. Essere stati nel calcio due giovani difensori rocciosi di scarso talento e molta grinta aver sognato di diventare fisici finendo poi a fare altro e l’amore per l’arte e il considerarla anche come metafora di ciò che facciamo nelle nostre professioni. Ci dividono invece, in particolare, il tifo, lei interista e io juventino e l’indice di Hirsch, quello che attesta produttività e valore scientifico, il suo è 218 il mio 0 (per far capire il livello Burioni è a 36 e Ilaria Capua 70). Partirei, quindi, dalla questione della metafora. Ho visto alcuni interventi dove lei utilizzava immagini di opere d’arte e brani di letteratura classica come linguaggio, per spiegare meglio e farle percepire meglio le cose che raccontava, un linguaggio che arriva più facilmente alle persone. In Malattia come metafora Susan Sontag ha riportato una frase di Gramsci che dice La cultura, come sapere enciclopedico, serve a creare un certo intellettualismo bolso e incolore, che è partito di tutta una catena di presuntuosi vaneggiatori più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide. Un concetto molto chiaro come è chiaro il ruolo della metafora della malattia e della cultura che ritroviamo nel suo modo di comunicare. In che modo funziona tutto questo per lei?

AM: Il mio rapporto con la dimensione umanistica, che ha tante sfaccettature, ha direi tre significati. Il primo è la passione: l’arte mi piace, questo è il punto di partenza imprescindibile. Il secondo è che è uno strumento di comunicazione, indubbiamente. E poi, soprattutto, ritengo arte e cultura un motivo di riflessione, cioè ci richiamano a una riflessione storica, a una riflessione etica, a una riflessione su quello che siamo in modo più complessivo.

FB: Però cosa sono arte e cultura? Soprattutto la cultura è qualcosa difficile da definire. E quando si dice che la cultura fa bene, definiamo un certo tipo di cultura, la cultura classica, oppure in realtà è qualcosa di molto più ampio?

AM: Io non sono capace di dare una risposta a questa domanda, onestamente. Penso che mia mamma, che aveva fatto la quinta elementare e non leggeva molto, fosse una persona molto colta, conosceva buona parte delle opere di Verdi a memoria. I miei zii in campagna avevano letto i Miserabili e nessuno di loro era andato oltre la quinta elementare. Penso che fossero comunque definibili come persone colte.

FB: E questo da un punto di vista medico e scientifico, essere persone colte, e ognuno poi lo intende come meglio preferisce, fa stare meglio? Aiuta anche il fisico a stare meglio?

AM: Non abbiamo dei dati per rispondere a questa domanda. Ci sono studi, per esempio in ambito oncologico, che cercano di indagare gli effetti di medi- tazione e preghiera sull’andamento clinico della malattia. Sono dati, però, non solidissimi. Io credo che la dimensione culturale, umanistica se vogliamo dirla in maniera più generale, abbia un significato molto meno utilitaristico. Fa bene, ma perché? Fa bene allo spirito, perché ad esempio motiva i nostri giovani e questo si riflette su tutta la società. Quindi non ho dati oggettivi sugli effetti fisici, ma sono sicuro che faccia bene nel complesso alle persone e ho fiducia che faccia bene alla società e alla Medicina in generale.

FB: Partiamo da una canzone del 1996 cantata da una coppia male assortita: Mina e Beppe Grillo. Cantarono insieme una canzone dal titolo Dottore, scritta da Car- lo Fava e Gianluca Martinelli. Una cosa che si concludeva con l’elencazione degli effetti indesiderati riportati nel bugiardino di un ansiolitico: attivazioni maniacali, ipomaniacali, agitazioni e irrequietezza, interferenza con stato di incoscienza, vertigini e nausea, atassia disartria, alterazioni allucinazioni, disturbi della funzione visiva, contrazione involontaria dei muscoli facciali. Ecco, se troviamo una alternativa nella cultura, nell’arte e nella bellezza, che in realtà sono tre cose ben separate, direi che avremo fatto un passo avanti. Però, innanzitutto quando parliamo di cultura che fa bene alla salute non c’è il rischio di ridurre il tutto ad una semplicistica idea di cultura come tranquillante? Il rapporto cultura/salute-benessere non è qualcosa di più?

AM: Non ho competenze né dati per rispondere. Quello che posso dire è che nel nostro organismo i due sistemi più complicati sono il sistema immunitario e il sistema nervoso centrale. Questi comunicano ma non sappiamo ancora bene come. Ci sono dati molto suggestivi che indicano che, per esempio, una vita socialmente attiva nelle persone anziane è associata a un tono infiammatorio più basso. L’infiammazione è causa di molti problemi, quindi questo ci fa pensare che tale connessione sia funzionale. Al di là di questo, io vado al cinema, a teatro e mi trovo con gli amici perché è una dimensione fondamentale della vita.

FB: Su questo sono assolutamente d’accordo. Il professor Zamagni, decano de- gli economisti della cultura, dice che l’uomo è un essere socievole e non sociale: la socialità si esprime con il bisogno di stare con gli altri. La socievolezza è il desi- derio di entrare e stare in relazione con gli altri. E forse in questo aiuta andare al cinema, andare a teatro, andare ai concerti, lo star bene con gli altri, e poi tutto diventa una conseguenza. Qui in Humanitas avete lavorato già sui temi dell’arte in collaborazione con l’Accademia Carrara di Bergamo. Ho letto nella presentazione della cartella stampa che soprattutto gli operatori, infermieri e medici, sono stati molto felici e hanno avuto conforto da questa cosa. Avete avuto riscontri anche da parte dei pazienti?

AM: É una vicenda che è iniziata a Bergamo con l’Accademia Carrara e poi è continuata con Brera qui a Milano. L’idea era di mettere insieme, appunto, arte e medicina. La scelta delle opere, anzi dei frammenti di opere, come lei ha visto, selezionate e ingrandite a tutta parete per dare un senso di immersione nella bellezza, ha tenuto anche conto della sensibilità delle persone che entrano in ospedale. Non c’è dubbio che le persone apprezzino la nuova veste artistica di aree comuni e, a Bergamo, dei reparti. Mi è stato riferito che l’iniziativa sia stata vissuta molto bene anche da chi l’ospedale lo vive ogni giorno: gli operatori sanitari, gli infermieri, i tecnici, i medici e i pazienti.

FB: Un tema fondamentale è proprio il fatto dell’aver cura. Nei luoghi di cura molto spesso capita che non ci sia una cura del luogo, e questo li fa percepire come posti pesanti da vivere, oltre al fatto di esserci per un motivo che comunque non è mai piacevole. Il fatto che ci sia una cura per il luogo che viene abitato in quei momenti, credo che questo riprenda il discorso che abbiamo fatto prima: il fatto di star bene. Vale con le persone ma anche con i luoghi.

AM: Essere in luoghi dignitosi è una dimensione importante per chi vi lavora e per chi è malato, nel nostro caso. C’è un racconto che ho sentito recentemente da una persona con cui vado in montagna: questo amico ha raggiunto la sua compagna, dottoressa, in Africa, dove lei lavorava come volontaria. Lui non è medico, non sapeva cosa fare. Si è messo all’opera con i ragazzi del posto e lo ha risistemato, verniciando e dando anche una dignità estetica al luogo dove operavano. Ecco, credo che le due cose debbano andare insieme. È un tema di rispetto, fondamentalmente, per chi entra in queste strutture.

FB: Molto spesso quando si cerca di avere cura di questi luoghi, ci si è rivolti allo studio dei colori, più che all’utilizzo di opere d’arte. Può funzionare meglio invece avere comunque qualche cosa di artistico, qualcosa di tradizionalmente bello? È un qualcosa in più?

AM: Non ho competenze per commentare con dati questa domanda. Posso solo dire che penso sia più bello e che sia più coinvolgente.

FB: Qualcuno dei vostri operatori, non so se fosse un medico o un infermiere, ha detto: spero che non tolgano mai più questi quadri. Non si rischia mai di abituar- si alla bellezza quando è statica? Che l’effetto meraviglia pian piano scompaia? Io mi rendo conto che passo davanti al Duomo ogni settimana e non lo guardo neanche più. Si rischia di abituarsi anche a questo?

AM: Le rispondo con un’esperienza personale: mia moglie e io non viviamo in centro, quando succede di andarci ci ristupiamo della bellezza della nostra Milano. E lo stesso quando in certi momenti riattraversiamo i navigli. Se hai la fortuna di essere lì quando nevica, per esempio, o con la nebbia, è una cosa straordinaria. Lo stupore di fronte alla bellezza è anche questione di allenamento: bisogna mantenere una certa freschezza.

FB: Tornando a quello che avete fatto in Humanitas, voi avete abbinato all’aspet- to visivo delle opere d’arte una serie di testi originali, scritti e interpretati come podcast da alcuni intellettuali come Paolo Fresu, Lella Costa, Bruno Bozzetto, Michela Murgia. Qual è la ragione di questo abbinamento di parte visiva e parte letteraria? Come mai l’avete scelto e in cosa avete trovato che abbia funzionato?

AM: Penso che le due cose debbano andare insieme, o mi piacerebbe che an- dassero insieme. Quando insegno ai ragazzi di Medicina, utilizzo quadri. Mi è capitato di prendere parte a eventi in cui si sono accoppiati commenti di tipo scientifico con opere di tipo letterario. Spesso inizio le mie conversazioni con il pubblico o con i ragazzi delle scuole con un pezzo di Tucidide. Quindi direi che mettere insieme letterature e arti visive sia, per quanto mi riguarda, qualcosa cui sono estremamente sensibile.

FB: Lei utilizza molto spesso quadri per raccontare questioni scientifiche. I quadri li sceglie perché le piacciono o cerca quelli che sono più funzionali anche se sono meno vicini al suo gusto?

AM: È l’intersezione delle due cose. In alcuni casi dipende dal messaggio che voglio dare. Per esempio, penso al sistema immunitario come una straordinaria orchestra. Un concetto legato a quello di armonia, perché dall’equilibrio del nostro sistema immunitario dipende l’armonia del nostro organismo. Per dare questo messaggio scientifico utilizzo l’immagine di orchestra di pittori impressionisti. E questo mi aiuta inoltre a dire che noi, di questa orchestra straordinaria, non conosciamo tutti gli orchestrali, gli strumenti e gli spartiti. Questa è la sfida di Ricerca che inseguo da tutta la vita. All’altro estremo, mi piace Boccioni, e quindi mostro alcuni suoi capolavori quando mi relaziono al concetto di velocità, per esempio, la velocità con cui abbiamo sviluppato i vaccini. Oppure Lucio Fontana, un personaggio straordinario. Ho ripensato ai suoi tagli nella tela nel contesto della pandemia come la sfida di attraversare la dimensione del non conoscere per conoscere al servizio della salute.

FB: Sapevo della sua passione per Fontana e mi sono ricordato di una sua frase che dice È l’infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuole capire, sennò continua a dire che l’è un bus, e ciao... Il tema della consapevolezza. Ha molto a che fare con la scienza.

AM: Tra l’altro mi è stato detto che Fontana era particolarmente interessato alla dimensione fisica del tempo.

FB: Un altro quadro che so che le piace molto è la Grande Onda di Hokusai, che utilizza spesso nelle sue narrazioni.

AM: Mi piace Hokusai. Innanzitutto, mi piace la sua biografia perché è la storia di un uomo che cambia nome rimanendo sé stesso. Cambia come tutti noi cam- biamo. Poi una cosa che mi sembra di capire di Hokusai è che il suo interesse in realtà siano le persone. In un quadro come l’Onda, in cui la percezione dell’os- servatore è rapita da questo mare in tempesta, in realtà il suo interesse è concentrato sugli uomini che remano, che quasi non si notano neanche. L’occhio cade sull’onda ma il cuore del dipinto è quello. Poi c’è un piacere estetico.

FB: C’è una similitudine tra quello che può essere un ragionamento artistico e un ragionamento scientifico? Il modo di ragionare di un artista e quello di ragionare di uno scienziato hanno meccanismi che possiamo pensare simili? Perché nella narrazione l’artista è il pazzo, il folle, che non segue regole, e lo scienziato invece è quello rigoroso. In realtà poi dopo si scopre che non è esattamente così.

AM: Una profonda differenza è che noi scienziati ci confrontiamo con i dati. Se i dati ci smentiscono, dobbiamo cambiare idea. Io, essendo un biomedico, sono un ricer- catore sperimentale, ma direi che è vero in generale per la ricerca scientifica. Detto questo, poi c’è una componente di intuizione e di visione. E io credo che questo sia un terreno comune fra chi fa arte e chi fa scienza. C’è poi una dimensione di fantasia. Si dice che Kekulè, un uomo che, alla fine dell’Ottocento, ha pensato la struttura del benzene fatta ad esagono, l’abbia sognata. Quindi c’è questa dimensione di visione e di intuizione che tutti noi, in misura più o meno grande e modesta, abbiamo. Poi c’è una dimensione di stupore, di meraviglia, di gioia, che credo sia comune anche all’artista e all’esteta nel momento in cui ci accorgiamo di vedere qualcosa che nessuno ha mai visto. È una dimensione esistenziale che accomuna chi vede per la prima volta il taglio nella tela, come Fontana, chi comincia a dipingere con dei puntini e vede in modo diverso la realtà, chi fa una scoperta scientifica.

FB: La capacità di immaginare un futuro, qualcosa che possa essere diverso da quello che si è sempre fatto.

AM: O si è sempre visto.

FB: Ritiene che ci possa essere una correlazione tra essere uno scienziato e l’amo- re per la cultura?

AM: È una bella domanda. Alcune persone sicuramente hanno questa dimen- sione, non ho dubbi, ma non è automatico. Un mio amico, un grandissimo scienziato negli Stati Uniti, per esempio, conosce in modo straordinario l’opera e la musica classica. La musica è molto diffusa, secondo me, in alcuni ambienti scientifici.

FB: Una delle mie più grandi perplessità, quando sento dire che la cultura cura, è che non possiamo essere certi di cosa intendiamo per cultura. Perché se la cul- tura fosse solo la musica classica, l’arte rinascimentale, sarebbe semplice, ma la cultura non è più solo questo. Per i ragazzi non è questo. Un rave party per loro ha un valore anche musicale. Noi di un’altra generazione lo percepiamo come una qualcos’altro, ma per loro è cultura. Quindi la cultura è un termine molto, molto vago. Bellezza poi, ancor di più perché quello che è bello per me a lei può non piacere per nulla e viceversa.

AM: E il tempo, inoltre, ci cambia.

FB: Per questo diventa molto complicato fare affermazioni di quel genere. Credo in definitiva che a farci bene sia l’attivare la mente e tenerla allenata alle passioni. Poi la passione ognuno ha le proprie.

AM: Credo che il rischio, che vedo in molte persone, e che mi preoccupa rispetto ai medici, è quello di una formazione monodimensionale. Il rischio di chi fa il mio mestiere e di chi è straordinariamente impegnato, è di diventare a una di- mensione portandosi a casa il lavoro, che è la propria passione. Non per tutti è così: ho conosciuto persone straordinarie, appassionate a tanti aspetti della realtà. George Klein, uno straordinario scienziato di origine ungherese poi fuggito in Svezia, conosceva anche la Divina Commedia a memoria e aveva scritto dei libri umanisti.
FB: Forse si potrebbe dire che è colto chi sa vedere più cose, qualcosa che funziona come la teoria delle stringhe, avere una visione laterale più ampia. Quello forse è la vera cultura. Uno può essere bravissimo in un settore, però poi dopo se non vede altro... Magari è colto, ma è una cultura, a quel punto, utile solo, limitatamente. Le persone colte sono quelle che sanno vedere e giocare su più campi.


Franco Broccardi

Esperto in economia della cultura, terzo settore, gestione e organizzazione di istituzioni culturali e di mercato dell’arte. Co-fondatore e partner degli studi Lombard DCA e BBS-Lombard srl di Milano e fondatore e curatore della rivista ÆS Arts+Economics. Tra le altre cariche è membro della commissione Economia della cultura presso il del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e coordinatore della commissione di Economia della Cultura presso la Fondazione di ricerca dei Commercialisti, consulente per le politiche economiche di Federculture, membro della commissione tecnica a supporto del consiglio direttivo di ICOM Italia – International Council of Museums, consulente di ADEI – Associazione Degli Editori Indipendenti oltre che di Assobenefit per le tematiche fiscali relative alle società benefit

Alberto Mantovani

Milanese, medico, è Presidente di Fondazione Humanitas per la Ricerca, direttore scientifico dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e professore emerito presso Humanitas University. In passato ha lavorato in Inghilterra e negli Stati Uniti ed è stato capo del Dipartimento di Immunologia dell’Istituto Mario Negri di Milano. Ha contributo al progresso delle conoscenze nel settore immunologico, sia formulando nuovi paradigmi, sia identificando nuove molecole e funzioni. È il ricercatore italiano più citato nella letteratura scientifica internazionale. Per la sua attività di ricerca ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali