Di che cosa parliamo quando ci chiediamo se la cultura sia sostenibile
di Francesco Mannino
Un autorevole sguardo sugli impatti delle imprese del patrimonio culturale
Da fine gennaio 2023 sta circolando lo short paper di Paolo Venturi e Andrea Baldazzini di AICCON (Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit) dal titolo “Imprenditorialità di impatto sociale e strumenti di co-progettazione per la valorizzazione del patrimonio culturale”. Il titolo, estremamente accattivante, anticipa un ulteriore contributo di AICCON per l’approfondimento su uno dei temi forse più dibattuti negli ultimi anni negli ambienti dell’innovazione sociale a matrice culturale: se, e nel caso come, il comparto culturale e creativo contribuisca a generare impatti sociali, e di che genere. Modelli di altri paesi, batterie di indicatori, SDGs, controfattualità e teoria del cambiamento affollano incontri pubblici e contributi scientifici, scorrendo come su uno schermo cinematografico a velocità incessante, davanti ad un pubblico a volte affaticato di operatori e decisori del settore. La riflessione, in estrema sintesi, suggerisce che attività e luoghi culturali possano fungere da “beni di stimolo”, strumenti di innovazione sociale in grado di alimentare - attraverso la distribuzione e la socializzazione della conoscenza - percorsi di sviluppo e benessere collettivo, e beni comuni (Sacco, 2017), piuttosto che tradursi in meri beni di comfort, ancora una volta secondo una logica tipicamente estrattiva. Questo testo ha il merito di invitare tutti coloro che hanno le mani in pasta nelle industrie culturali e creative a riconsiderare il proprio ruolo di soggetti economici, valutando seriamente la possibilità di essere attori di un cambiamento sociale necessario in un’epoca di rinnovate e profonde diseguaglianze. Venturi e Baldazzini stimolano a riconsiderare il concetto di sostenibilità della cultura superando di gran lunga la paludosa questione se con la cultura si riesca a mangiare o meno, suggerendo invece a quel mondo l’idea che, con gli strumenti delle sue cassette degli attrezzi, si possano stimolare il «rilancio di interi territori aprendo le porte a nuovi percorsi imprenditoriali e offrendo orientamenti differenti alle policy. In questa fase cosiddetta “di ripartenza” non si ha bisogno tanto di “beni di comfort”, quanto piuttosto di beni e conoscenza in grado di stimolare il cambiamento».
Diseguaglianze e cultura, tabù o rimozione?
Dal contributo dei due studiosi emerge una fiducia molto elevata nei confronti di un possibile capitalismo inclusivo e sostenibile, fiducia forse generata in loro da casi studio che ne dimostrano la fattibilità. Da chi però quel settore lo vive nelle pratiche quotidiane, e ne osserva movimenti, tendenze, politiche e storytelling, vien fuori l’impressione che ancora il segmento del patrimonio culturale sia saldamente schiacciato tra la retorica della bellezza che salverà il mondo e la spinta aggressiva a farne il petrolio italiano. Questi due cementizi pilastri producono inevitabilmente scelte politiche e condizioni di agibilità che, ad oggi, sembrano ben lontane dal poter essere generative di processi stabilmente sostenibili e di impatti che rimettano in discussione profondi squilibri sociali, anzi: il settore culturale è, ad oggi, anch’esso luogo di diseguaglianze, e questo argomento appare ampiamente un tabù tra operatori, addetti, decisori pubblici e privati. Si tenterà qui di riportare uno sguardo sulle diseguaglianze nel mondo culturale, e di come esse incidano gravemente sulle ipotesi di sostenibilità sociale ed economica del settore oltre che, ovviamente, sulla vita di molte persone. Non di meno, in chiusura, si proverà a riprendere il filo di Venturi e Baldazzini e altri, provando a corroborare delle ipotesi generative.
Il peso del patrimonio storico e artistico nel sistema produttivo culturale e creativo
Proprio il rapporto “Io sono cultura” della Fondazione Symbola, richiamato dal paper, evidenzia per il triennio 2019-2021 alcune tendenze che è bene riportare qui: tendenze che, va detto, hanno trovato scarso spazio nel dibattito tra addetti ai lavori e meno che mai in quello di vecchi e nuovi decisori pubblici.
Prendendo in esame le imprese che operano nel settore del “Patrimonio storico e artistico”, va detto che esse contribuiscono a generare valore aggiunto nella misura del 3% di tutte le industrie culturali e creative, e in quella dello 0,2% dell’intera economia italiana. I 51 mila occupati del settore sono anch’essi lo 0,2% del totale degli occupati del Paese. Restando sull’occupazione, va evidenziata innanzitutto la pesante flessione nel triennio 2019-2021 del -14,6% dei posti di lavoro del settore (stiamo parlando di circa 7500 persone), di cui un terzo circa solo nel biennio 2020-2021. Anche sul fronte della vitalità di queste imprese, le notizie non sono buone: se nel biennio 2020-2021 il tasso di nuove imprese iscritte alle camere di commercio è sceso del -23%, nello stesso periodo le cessazioni sono aumentate del +72,2%. Insomma, meno nuove imprese, moltissime cessazioni e quasi il 15% dei posti di lavoro perduti in tre anni (a fronte di una flessione generale del -1,5% di posti perduti in tutto il Paese) descrivono una evidente fragilità del settore del Patrimonio storico e artistico. Si dirà: eppure ci sono anche quelle imprese non dismesse, e quei posti di lavoro mantenuti. Vero, per loro forse c’è spazio nel campo della sostenibilità economica. Ma le tante altre?
Il mercato delle attività di fruizione del patrimonio culturale è sostenibile?
Come è ampiamente noto, il Codice dei Beni Culturali del 2004 aveva introdotto la gestione indiretta delle forme di valorizzazione, in particolare dei servizi di fruizione rivolti al pubblico. A distanza di quasi un ventennio l’auspicato dibattito sugli esiti di quelle scelte normative stenta a decollare, schiacciato dalla vulgata pubblica sulla cultura come petrolio e come ricco cibo per tutti, ma un fatto è abbastanza pacifico: i privati che sono stati chiamati a farsi carico di quelle attività mediante concessioni pubbliche hanno dovuto (o voluto) considerare prioritario il tema della sostenibilità economica: se un’impresa culturale deve garantire ai propri soci dividendi che consentano la remunerazione dell’investimento, ovviamente sceglierà di puntare laddove ci sono più ricavi possibili. In tal modo la valorizzazione assume un significato prevalentemente economico e selettivo. In alcune occasioni pubbliche (ad es. durante il convegno Mibact “Italia Europa. Le Nuove Sfide per l’Educazione al Patrimonio Culturale”, Roma 2019) consulenti della CONSIP, l’agenzia che gestisce le gare dello Stato per acquisire servizi o prodotti (anche culturali), hanno esplicitamente dichiarato che le imprese culturali che gestiscono i servizi al pubblico ex art. 117 del Codice dei Beni Culturali, raggiungono il pareggio tra costi e benefici solo quando si supera la soglia dei 200-250mila visitatori paganti l’anno. È facile immaginare che, alla luce di un parametro simile, solo alcuni dei beni culturali del nostro territorio siano appetibili per investimenti del genere, lasciando fuori tutto il resto: ad esempio tra i 2.395 musei che prevedono forme di accesso a pagamento (ISTAT 2021), solo una cinquantina si collocano sopra quella soglia. Questa logica della esternalizzazione dei servizi culturali demandati alla sola sostenibilità economica induce il settore ad un approccio tipico del nostro presente, caratterizzato da politiche e strategie che sembrano vedere solo il “centro” del tutto, tanto i patrimoni culturali “maggiori” o “grandi attrattori” che i “centri storici” o le forme culturali “alte”, sfocando fino all’esclusione e condannando all’irrilevanza tutto ciò che sta fuori da quei “centri”, ovvero il patrimonio culturale “minore”, le cosiddette periferie, le forme culturali “altre”. Insomma, portano inevitabilmente a pratiche di capitalismo estrattivo, tanto stigmatizzato da Venturi e Baldazzini.
Si dirà: eppure quelle imprese che presidiano i grandi attrattori, quelli sopra i 250 mila visitatori l’anno, quelle che ad esempio gestiscono i servizi per quella cinquantina di musei più attrattivi, generano valore economico e posti di lavoro. Vero, per loro forse c’è spazio nel campo della sostenibilità economica. Ma le tante altre?
Il lavoro culturale è sostenibile?
Tornando alla dimensione occupazionale, e scendendo nel dettaglio della qualità del lavoro di chi opera nel settore, emergono alcuni elementi allarmanti. Secondo i dati dell’inchiesta “Cultura, contratti e condizioni di lavoro” dell’Associazione “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”, chiusa il 9 gennaio 2023 con 2526 risposte ad un questionario, il 68,7% del campione dichiara di essere dipendente: di questi il 30,21% in musei, il 16,2% in biblioteche, il 21,88% presso una struttura pubblica. Solo il 42% ha un contratto a tempo indeterminato, mentre il 26,5% lavora a tempo determinato. Il resto si suddivide tra stage, tirocini, Co.co.co., stagionali, apprendistato, interinale, a chiamata, a progetto, in nero. Solo il 6,1% è assunto con l’unico contratto di categoria, il CCNL Federculture. Il 23,5% è ingaggiato con il multiservizi, il 3,3% con il servizi fiduciari, il 12% con il commercio, il 2,5% con edilizia e così via dicendo. Il 68,9% guadagna meno di 8 euro netti all’ora. Il 50,4% raggiunge meno di 10 mila euro all’anno. Il 72,3% meno di 15 mila. Dei non dipendenti, il 61% lavora con partita Iva e il 29% viene impiegato mediante ritenuta d’acconto (rielaborazione dati de Il Manifesto).
Per quanto il campione sia limitato e selezionato sulla base dell’adesione volontaria mediante auto-somministrazione del questionario ad una bolla di persone sensibili alle posizioni di Mi Riconosci?, l’iniziativa resta assolutamente lodevole, vista la carenza di studi ad ampio raggio sulle forme di contrattualizzazione collettiva del personale impiegato nel settore dei beni culturali. Se i dati di “Mi Riconosci?” dovessero essere confermati, quasi la metà dell’occupazione culturale sarebbe classificabile come “precaria” (tempo determinato e autonomi), e della restante parte solo una irrilevante componente verrebbe trattata con un CCNL (Federculture) capace di riconoscere le peculiarità delle professioni impiegate. Resterebbe anche da capire quali eventuali diseguaglianze di genere stiano caratterizzando questo già fragile comparto occupazionale, e ci si augura che presto le ricerche e gli studi possano approfondire quanto avviato dall’associazione. Si dirà: eppure ci sono anche quelle lavoratrici e quei lavoratori stabili e con retribuzioni dignitose. Vero, per loro forse c’è spazio nel campo della sostenibilità economica e sociale. Ma i tanti altri?
L’accesso alla cultura è sostenibile?
Passando dal lato della cosiddetta domanda, o dei pubblici, anche sul fronte della partecipazione culturale le diseguaglianze sono evidenti, e anche su questo aspetto si fatica a trovare un dibattito sobrio, laico e approfondito che ne indaghi le cause, se non con rare ed eccellenti eccezioni. Se ISTAT con il suo Rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile) ci ricorda che la piena partecipazione culturale fuori casa nel 2021 ha coinvolto ormai solo l’8,5% dei cittadini e delle cittadine in condizioni di benessere economico, questa scende al 5% per le famiglie monoreddito (ISTAT 2016) e quasi scompare (1,7%, ISTAT 2022) tra le persone in povertà assoluta, ovvero 1 milione 960 mila famiglie, il 7,5 per cento del totale della popolazione. I divari territoriali sono evidenti: se nel 2019 la partecipazione piena coinvolgeva a livello nazionale il 28,2%, questa balzava al 32% al nord, e crollava al 21% al sud, con picchi fino al 17% tra Sicilia e Calabria (ISTAT 2021, dashboard).
Save The Children, nel suo rapporto annuale sulle povertà educative, racconta di una esclusione culturale tra i minori in regioni come la Sicilia che tocca livelli del 73% di mancata partecipazione nei teatri, del 71% nei musei, del 69% nei concerti, dell’80% nei siti archeologici (in quella regione del bla bla sulla densità di siti UNESCO…). Ecco, se possibile il fenomeno della povertà educativa è uno degli spaccati che meglio di altri permette di affacciarsi sulle diverse dimensioni delle diseguaglianze della partecipazione culturale; uno spaccato che, intersecando aspetti territoriali, condizioni economiche e sociali, dimensioni di genere e di generazioni, condensa appieno cosa succede quando le condizioni di accesso alla cultura non sono sostenibili, democratiche, parte di un sistema sociale inclusivo. Si dirà: eppure ci sono anche quelle persone che partecipano pienamente alla cultura. Vero, per loro forse c’è spazio nel campo della sostenibilità sociale. Ma le tante altre?
Che fare per rendere sostenibile la cultura?
Se esclude un’ampia parte della popolazione dalla partecipazione; se ospita condizioni di lavoro tendenzialmente precarie e sottopagate; se costringe molte imprese a condizioni di fragilità, ecco che il settore del patrimonio storico e artistico nel sistema produttivo culturale e creativo italiano sembrerebbe incapace di rispondere diffusamente ai canoni di sostenibilità economica e sociale, se non in alcuni casi virtuosi e famosi, ma forse non assumibili a modello proprio perché più eccezionali che ordinari. A fronte di questi dati e di questi ragionamenti l’affermazione che “potremmo vivere di sola bellezza” si traduce in un soave auspicio, un illusorio desiderio, un’utopica retorica. Eppure.
Eppure se si assumessero nuove posture culturali capaci di restituire giustizia consequenziale a quegli auspici e a quelle retoriche, dando soprattutto peso ad alcune autorevoli voci di altrettanto autorevoli studiosi e studiose e di ormai consolidate linee di indirizzo nazionali e transnazionali, il settore culturale e in particolare quello del patrimonio storico artistico potrebbe davvero contribuire a quella sostenibilità integrata obiettivo supremo dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile; l’Agenda che Stati, aziende e cittadini ormai hanno fatto intrinsecamente propria, avviandosi a generare impatti sociali anche rilevanti sulla qualità del lavoro, della vita e del benessere. Una bussola, quella degli SDGs (obiettivi di sviluppo sostenibile) di Agenda 2030, ormai ampiamente adottata per imprimere in tempi accettabili un cambio di rotta necessario alla traiettoria insostenibile che abbiamo impresso al nostro pianeta e ai nostri rapporti sociali.
Cambio di rotta a cui potrebbe contribuire, quel settore lì, se si assumessero finalmente obiettivi sostenibili come ad esempio un’occupazione culturale di qualità, un adeguato livello di finanza pubblica investita in cultura, una diffusa istruzione e formazione culturale e artistica, livelli dignitosi di garanzia dell’accesso e della partecipazione culturale, il riconoscimento della partecipazione attiva ai processi culturali come fenomeno indispensabile per uno sviluppo democratico, inclusivo ed equo delle nostre società. Un’altra soave, illusoria e utopica lista dei desideri? Tutt’altro: come ci ricorda Valentina Montalto nel suo “Cultura per lo sviluppo sostenibile: misurare l’immisurabile?” quelli citati sono solo alcuni dei 22 indicatori che UNESCO ha estratto dall’Agenda 2030 e dai suoi SDGs per renderli applicabili al settore culturale, facendo sì che questo possa contribuire inequivocabilmente al grande e irrinunciabile obiettivo di sviluppo sostenibile.
Prendendo in prestito il ragionamento di Venturi e Baldazzini e proiettandolo altrove, il segmento del patrimonio storico artistico potrebbe contribuire a generare impatti sociali sostenibili se paesi come l’Italia riconoscessero il lavoro culturale come professione che contribuisce all’interesse generale e alla produzione di cambiamento sociale, al pari delle professioni dell’istruzione o della cura: se bene di stimolo, che questo venga prodotto in un quadro di welfare pubblico, come si fa per la scuola o per la salute, e quindi istituendo un Sistema Culturale Nazionale finalizzato a garantire che «ogni cittadino abbia diritto alla cultura, che la cultura serva a creare consapevolezza e a forgiare la democrazia, e che l’esistenza stessa degli spazi culturali debba avere come fine ultimo quello di creare inclusione sociale e benessere diffuso», come scrivono le persone attiviste di Mi Riconosci?, che hanno reso pubblica questa loro proposta politica nel volume “Oltre la grande bellezza”.
Un sistema nazionale che quindi si possa avvalere di un ampio numero di professionisti e professioniste della cultura per rafforzare il raggio generativo dei processi di apprendimento e conoscenza, di cura e di benessere.
Superare la valorizzazione
Se, al di là di ogni retorica altisonante che affolla salotti e studi televisivi, convegni e programmi politici, si riconosce davvero il valore sociale del settore culturale, questo andrà definitivamente sottratto alla esclusiva dipendenza dell’andamento del mercato dei servizi culturali. È questo il punto, oltre ogni provocazione o proposta di lungo periodo. Se davvero si vuole collocare il settore del patrimonio culturale in una cornice di sviluppo sostenibile generativo di impatti di lunga durata, bisognerà definitivamente e inequivocabilmente riconoscere che il concetto italiano di valorizzazione, diventato norma dello Stato sul crinale tra i nostri due secoli, non sia riuscito a convivere con quello di sostenibilità integrata, sociale, economica e finanche ambientale (cosa genera davvero il turismo culturale su questo piano, è già tema di riflessione e ricerca, soprattutto nelle grandi città d’arte e nei grandi attrattori); un concetto troppo abusato dal capitalismo estrattivo, che beatamente se ne infischia del lungo periodo pensando ad esaurire, valorizzandoli, i “giacimenti culturali” via via che essi sono oggetto di domanda nelle frenetiche dinamiche del mercato.
Per essere generativo di impatti sulle persone e sui rapporti sociali, il patrimonio culturale deve diventare bene comune, deve essere accessibile, equo, luogo di benessere e di attivazione (e di attivismo) per chi vi lavora e per chi vi partecipa. Più che valorizzato dunque, il patrimonio culturale dovrebbe essere socializzato, nel senso che dovrebbe essere assunto, appunto, come chiave di trasformazione e partecipazione sociale non solo perché bagaglio di conoscenza a cui attingere (un insieme di cose culturali) ma come aggregato di processi di stimolo e di emancipazione dalla intermediazione, dall’isolamento, dalla subalternità, dalle povertà.
Le idee ci sono, ora servono le politiche.
Francesco Mannino (1973), PhD in storia urbana, lavora a Catania con lo staff di Officine Culturali, l’associazione impresa sociale di cui è co-fondatore, presidente e project manager: con il suo gruppo lavora all’ampliamento sostenibile della partecipazione culturale. Dal 2018 è membro del direttivo Federculture e nel 2020 è stato eletto coordinatore Sicilia di ICOM Italia. È consulente di Compagnia di San Paolo e di Fondazione Edison Orizzonte Sociale per l’accompagnamento di progetti di contrasto a base culturale delle diseguaglianze (povertà educative e relazionali).