Luciano Galimberti

Nella mostra “Neo Preistoria”, 100 verbi per raccontare altrettanti oggetti nella storia dell’uomo, i curatori Andrea Branzi e Kenya Hara hanno scelto, alla voce celebrare, il premio ADI Compasso d’Oro per rappresentare una delle attitudini più profonde dell’uomo.

Mai come oggi celebrare, rendendo solenne il tempo, è azione fondamentale per rappresentare uno scopo a cui tendere; nell’idea di celebrazione, il tempo ciclico viene fermato e diventa intramontabile. Celebrare una festa, sottolinea il filosofo Byung Chun Han[1], significa vivere un luogo sacro, consacrato dalla festa stessa e dai suoi eroi. Oggi il Compasso d’Oro e la sua Collezione Storica sono, per decreto ministeriale, patrimonio nazionale di straordinario interesse e il museo che la conserva è volutamente un museo di ricerca esperienziale, lontano dalla stantia autocelebrazione, perché celebrare il design italiano sia e resti una festa collettiva.

Una storia che parte da lontano, ma che in una sorta di lungo presente, ha mantenuto coerenza e capacità di sviluppare relazioni propositive per costruire un’idea di comunità civile ponendo il rapporto tra pubblico e privato come obbiettivo e non come semplice opportunità.

“Mio caro amico, le scrivo in gran fretta. Parto fra mezz’ora per bombardare Grahovo […] Il titolo per la Società è questo. L’ho trovato ieri sul vallone di Chiapovan: LA RINASCENTE. È semplice, chiaro e opportuno”. Con queste poche righe, nel 1917, Gabriele D’Annunzio comunicava al Senatore Borletti il nuovo nome per la società che aveva appena rilevato dai fratelli Bocconi.

Un nome semplice e chiaro, certamente, ma perché "opportuno"? Perché quella che chiameremmo oggi mission era: diventare il riferimento culturale per la nuova borghesia, che viveva l’esperienza di una società modernista affrontando per la prima volta, senza falsi pudori, problemi di praticità, igiene e gusto rinnovato.

Ma la vera novità è che un magazzino, un 'negozio', si fa carico di colmare un gap produttivo italiano, promuovendo così nuove tecniche, nuove professionalità, una nuova estetica. In quegli anni La Rinascente inventa di fatto un modello inedito di relazione tra progetto, produzione e mercato.

Finita la seconda guerra mondiale, un intero paese era da ricostruire, sia materialmente che moralmente, dalle basi. In questo clima, nel 1951, si svolge la IX Triennale di Milano. Il tema di riferimento era: la forma dell’utile. La Rinascente partecipa a questa esposizione con un ambizioso prototipo di casa “moderna” arredato su disegno di Franco Albini. Un successo clamoroso, che convince La Rinascente, attraverso la lunga collaborazione strategica e artistica con Gio Ponti, ad approfondire la questione di una nuova estetica, lontana dalla retorica del ventennio, applicata a tutti gli oggetti che compongono il nostro panorama quotidiano e ad immaginare e organizzare un vero e proprio premio, con l’obbiettivo di riconoscere e promuovere quei prodotti che si distinguevano per qualità culturali ed estetiche.

Nasce così il Premio Compasso d’Oro, da una intuizione dello stesso Gio Ponti, che per primo intravede le potenzialità del design nell’ambito di ogni aspetto della vita quotidiana. La sua prima edizione vede la luce nel 1954.

D’Oro ovviamente in quanto metallo prezioso, ma d’Oro perché riferito al compasso usato dagli scultori per definire le proporzioni sulla base delle regole dell’armonia aurea.

Generazioni di progettisti, si sono aggrappati all’idea di armonia espressa nella sezione aurea. Un'armonia intrinseca, magari non facilmente descrivibile agli occhi profani, eppure così facilmente percepibile, così inspiegabilmente rassicurante e pacificante.

Riferirsi a questi principi sembrò coerente con la cultura e l’impegno dei professionisti interpellati. Un impegno civile prima che di professionalità, un impegno che voleva mettere al centro del progetto moderno l’uomo e la sua felicità. Utopia? forse, ma ancora di straordinaria attualità.

In settant’anni di storia, che verranno celebrati proprio quest’anno, il Premio Compasso d’Oro ha rilasciato poco più di 370 riconoscimenti. Un premio che ha assunto sempre più valenza istituzionale, candidando il nostro miglior design nel mondo a un ruolo di riferimento culturale prima che estetico, affermando l’idea che il design italiano non sia attività limitata alla definizione delle forme, quanto alla costruzione di relazioni profonde con quello che oggi è certo limitativo definire “fruitori”.

Per proiettare il premio in una dimensione più istituzionale ed evitare potenziali critiche rispetto a scelte, che in quel periodo storico venivano fatte in pratica nel ristretto ambito delle aziende che di fatto si raggruppavano attorno a Rinascente,  questa ultima decide nel 1958 di passarne la titolarità e l’organizzazione alla neonata ADI Associazione per il Disegno Industriale, un’associazione non corporativa, anzi: un'organizzazione capace di costruire un dialogo virtuoso e articolato tra le differenti componenti del progetto industriale. Riconoscere che il successo di un progetto di un prodotto di design fosse il portato di differenti ambiti e contributi da parte di molteplici soggetti, imprese, progettisti, storici, sistema formativo, sistema distributivo, critici e il mondo variegato della comunicazione, fu una vera innovazione culturale e metodologica. ADI e il suo Compasso d’Oro rappresentano un’idea originale di design e connotano attorno a questa idea l’intero design italiano. 

Il percorso metodologico del Premio ADI Compasso d’Oro

Il Premio Compasso d’Oro, nel tempo ha evoluto le modalità di analisi e giudizio, così come la sua struttura organizzativa, che da pioneristica élite intellettuale oggi si presenta come un variegato osservatorio permanente multidisciplinare distribuito lungo tutto il territorio nazionale. Un percorso evolutivo che ha sempre interpretato con grande responsabilità̀ l’impegno nella costruzione di una concreta scala di valore della qualità̀ del design italiano nel mondo, da offrire sia agli addetti ai lavori quanto al grande pubblico.

Oggi l’osservatorio permanente ADI è composto da circa 150 esperti multidisciplinari che, attraverso tre momenti di analisi successive, propongono nel biennio di lavoro per ogni edizione una selezione ragionata della produzione italiana a una giuria internazionale, che ha poi il compito di assegnare non più di venti premi per ogni edizione; un premio che ha voluto configurarsi come istituzionale, lontano dai tanti, pur autorevoli, premi commerciali.

Nel tempo la composizione della giuria è diventata anch’essa sempre di più̀ multidisciplinare, con l’idea di garantire molteplici punti di vista non autoreferenziali, leggendo il design italiano rispetto alle tante responsabilità̀ che sono state definite da ADI attraverso il trinomio: sviluppo – sostenibile – responsabile.
Questo lungo percorso di ricerca e analisi rende il Premio Compasso d’Oro un esempio unico per scientificità e rigore.

La Collezione Storica

Ambizione di ADI è da sempre stata quella di costituire, attraverso il proprio premio una collezione permanente, con l’obbiettivo di rappresentare nel tempo la storia del design italiano, ma in fondo con la consapevolezza di rappresentare contemporaneamente una sorta di autobiografia del Paese attraverso il design.

Ad ogni premiato, quindi, viene richiesta la donazione di una opera premiato, menzioni d’onore comprese. Edizione dopo edizione, vengono così raccolti oltre 2.000. opere, un patrimonio culturale straordinario, ma anche economico che però per l’associazione diventa un impegno enorme di conservazione. Nel tempo gli spazi per la conservatoria si dilatano a dismisura e con essi i costi di gestione e conservazione. ADI deve affrontare un nuovo ruolo e con esso impegni economici non sempre proporzionati alle proprie forze; il tema della conservazione di materiali fragili, sensibili, innovativi quanto sconosciuti nel loro rapporto con il tempo, diventa argomento di discussione e preoccupazioni. Sempre più spesso viene ipotizzata l’idea di una cessione della collezione storica o peggio della sua parcellizzazione e vendita. In questo contesto viene immaginata una evoluzione del modello associativo attraverso la costituzione nel 2001 della Fondazione ADI – Collezione storica Compasso d’Oro. Una fondazione che vede ADI come soggetto proponente aperto al rapporto con istituzioni e altri soggetti privati. L’idea di fondo, in sostanza era quella che conferendo la collezione storica a una fondazione riconosciuta e garantita dalle Istituzioni, la collezione venisse tutelata in via definitiva da ADI.

La costituzione del nuovo soggetto giuridico legato così specificatamente al design italiano diventa fatto innovativo che cambia significativamente i rapporti tra le istituzioni e ADI, che da subito interpreta queste nuove relazioni come un obbiettivo strategico e non come semplice opportunità, atteggiamento che si concretizza il 22 aprile 2004 nel riconoscimento della Collezione Storica del Compasso d’Oro, da parte del Ministero per i beni e le attività culturali - ai sensi degli artt. 2, 1° comma, lettera c, e 6, 2° comma, del D.L. 490/99 – di “patrimonio di eccezionale interesse artistico e storico”.

L’ADI Design Museum – Compasso d’Oro

Il ruolo propositivo del museo: contemporaneità dialettica

Conservare e valorizzare sono le due attività portanti di un progetto museale: se per le attività di conservazione i princìpi, i metodi e gli obiettivi sono chiari, per l’attività di valorizzazione la questione è decisamente più aperta. Il concetto di valorizzazione si circoscrive alle sole attività relative alla collezione permanente del museo, o si spinge in un territorio dove il patrimonio culturale è materia per costituire comunità consapevole? Un territorio dove il patrimonio culturale tiene conto del valore materiale delle opere museali quanto di quello immateriale che si alimenta di una ben più vasta e ricca partecipazione del territorio e della cultura che lo alimenta?

Per ADI Associazione per il Disegno Industriale la risposta a questi quesiti è stata un’assunzione di responsabilità più impegnativa rispetto a quella strettamente associativa, un’assunzione di responsabilità verso una comunità che supera i confini disciplinari quanto quelli associativi. Quindi la decisione di realizzare un museo per la propria Collezione Storica dal respiro internazionale e di lavorare affinchè diventasse luogo vivo e capace di contribuire alla costruzione di una comunità civile consapevole. Da questa decisione deriva l’esigenza di un museo che fosse il più adatto a questo obiettivo e quindi la ricerca di un’idea propositiva contemporanea.

Negli ultimi vent’anni il museo – inteso come tipologia architettonica e di fruizione – ha conosciuto una enorme diversificazione: un processo che non si è limitato ai soli spazi o agli allestimenti museali, bensì ha inciso sulla struttura di sostegno economico, transitando da un modello squisitamente sostenuto dal pubblico a un modello integrato dall’azione dei privati. Un rapporto nuovo, che vede nella propria collezione un modello tutto da sviluppare rispetto alle donazioni o acquisizioni private e alle tante realtà̀ interpreti di una ricerca, ma anche rispetto ai nuovi talenti e alle chiavi di lettura di figure storiche.

Il patrimonio fondamentale di un museo è rappresentato dal valore della sua collezione permanente, nel nostro caso la Collezione Storica del Compasso d’Oro, unica collezione di design riconosciuta patrimonio “di eccezionale interesse artistico e storico”.

La collezione in genere viene considerata come una “capsula del tempo” pensata per garantire ai posteri la fruizione di quello che in un preciso periodo storico veniva considerato rilevante; l’organizzazione della fruizione restava quindi esclusivamente legata all’asse temporale o a una tematica ben circoscritta.

La domanda da porsi oggi è quindi: quale può essere la formula vincente per rendere vitale un museo, in presenza di una collezione permanente di pregio? L’ idea fondamentale che ADI ha operato di fruizione museale è che le opere in realtà possano essere lette come nodi temporali e non come cippi miliari su un percorso lineare. Su questa suggestione, oggi le opere vengono lette attraverso il proprio passato ma al contempo tramite valori ed esperienze persistenti e in sintonia con il tempo nel quale l’opera viene fruita. Una lettura dove l’asse temporale si accorcia drasticamente a vantaggio della visione generale del tempo umano. La teoria applicata si riverbera inevitabilmente sull’organizzazione degli spazi museali, non più pensati a compartimenti stagni: nuove chiavi di lettura suggeriscono infatti l’uso articolato e interagente tra collezione e approfondimenti, un modo di generare sempre nuovo interesse a incentivare a ritornare nella visita del museo, che altrimenti resterebbe cristallizzato attorno alla propria pur ricca collezione. Quanti di noi sono infatti disposti a rivedere periodicamente la stessa collezione permanente? Al di là dell’affezione degli addetti ai lavori ADI crede che servano moventi aggregativi dinamici, generati di certo dalla collezione storica, ma in continua dialettica con gli stimoli di una contemporaneità̀ rivolta al futuro.

La lettura proposta nell’ADI Design Museum è quindi capace non solo di interpretare la contemporaneità̀, ma anche di esserne attore protagonista. Utilizzando una definizione apparentemente contraddittoria ma densa di significati, il ruolo del museo sarà̀ sempre di più̀ quello di disseppellire il futuro. Se assumiamo anche il futuro come orizzonte di riferimento del lavoro museale, l’obiettivo ambizioso sarà̀ quello di superare il limite del solo tempo presente, per proporre invece una lettura meno relativista possibile del presente stesso, in cui stili e opinioni non siano semplicemente rappresentati, ma inquadrati in una curatela articolata, che permetta di comprendere e partecipare alla costruzione di un futuro condiviso. Un lavoro che coinvolge una multidisciplinarità quasi illimitata, capace di sintetizzare i risultati della ricerca storica, sociologica, comportamentale in una visione capace di prendere posizione e interagire su diversi livelli.

L’archivio

Come detto in precedenza, conservare e valorizzare sono le due attività portanti di un progetto museale e per sviluppare queste attività è fondamentale l’organizzazione di un archivio ricco quanto efficiente.

ADI nel tempo ha raccolto la propria documentazione a ordinata testimonianza dell’attività svolta ma anche di come si sono formate le idee attorno alle quali sviluppare la propria attività: lettere, documenti, progetti, immagini, riviste e libri; un patrimonio archivistico variegato e fino all’apertura del ADI Design Museum archiviato in ordine cronologico, lo stesso ordine che è stato usato per la conservatoria delle opere della Collezione Storica.

La scelta del progetto museale ha imposto da subito una rilettura della documentazione a disposizione; da questa prima fase è emersa la necessità di un profondo lavoro di riordino e ricatalogazione del materiale a disposizione, permettendo così nuove chiavi di interpretazione e nuove prospettive. Un lavoro supportato da nuove figure professionali e nuove tecnologie, ecco quindi che la storica sede associativa riprende vita attraverso la ristrutturazione dell’archivio storico.

L’archivio diventa così memoria attiva del museo, aprendosi all’accoglienza di lasciti e acquisizioni e soprattutto aprendosi al dialogo strutturato con i più importanti archivi italiani.

Oggi a distanza di tre anni dall’apertura dell’ADI Design Museum, si lavora per la costituzione di un vero e proprio polo archivistico, che raggruppi in un luogo le testimonianze non solo di ADI, ma di numerose fondazioni del mondo del progetto, che in un dialogo costante con le università e la città possa diventare riferimento per istituzioni, musei, studiosi e addetti ai lavori.

“Essere liberi significa realizzarsi insieme”.

Se è vero che il mondo è diventato fluido, alla domanda sul perché date persone sono in quel dato luogo, la risposta più corretta è che quel gruppo di persone si riconosce nel valore di un momento di felicità condivisa, un momento che può essere inteso come costruzione di un bene comune. Questa semplice considerazione vale a maggior ragione per tutte quelle comunità di persone che cercano l’appartenenza a una comunità di interessi comuni. Il senso di felicità condiviso si fonda principalmente sul riconoscimento di valori condivisi, capaci di creare fiducia ed empatia verso una fruizione che ci faccia vivere sensazioni dimenticate e indimenticabili. Non una operazione astratta bensì una operazione che è frutto della volontà di chi intende condividere i propri valori. Un museo in quest’ottica non solo può avere interesse a favorire questa condivisione ma può assumere il compito civile di far emergere le caratteristiche di questo nuovo mondo quasi fluido da quello quasi solido del passato, in una composizione originale e stimolante di contemporaneità dialettica.

Anche in un mondo fluido le forme di aggregazione sociale richiedono la creazione di condizioni favorevoli affinché si formino queste aggregazioni. Un museo che voglia essere parte della contemporaneità può diventare concreto movente aggregatore di comunità sia di interesse che di scopo, un ruolo attivo capace di creare e curare quelle condizioni per la costruzione di una comunità viva.


Luciano Galimberti è nato a Milano il 9 febbraio 1958, ha fondato con Rolando Borsato a Milano nel 1985 bgpiù Progettazione, uno studio di progettazione organizzato per processi, con l’obiettivo di superare il tradizionale ruolo artigiano degli studi professionali operando sul concetto di design thinking. Lo studio interviene nei diversi ambiti dell’abitare e del lavorare, coniugando interventi di architettura, interni, exhibit, design e comunicazione. Un metodo di lavoro trasversale ai diversi problemi, che ha permesso di superare la figura del professionista artigiano. È stato per quattro anni membro del Comitato direttivo di ADI Lombardia con delega ai rapporti istituzionali e nel maggio 2014 è stato eletto presidente dell’associazione. La sua formazione affronta diversi ambiti tecnico scientifici e umanistici con l’obiettivo di costruire una visione design thinking delle tante problematiche della società contemporanea.


[1] Filosofo sudcoreano, è sua la citazione nel titolo