Fantasmi nel vuoto. I quadri di Lorenzo Puglisi
Mark Gisbourne
La storia della pittura si incunea tra le realtà percettive della presenza e dell’as- senza intuita. Sia nel luogo presente che nell’assenza di luogo, negli stati della sostanza materiale e in quanto è immaginato per congettura. E tuttavia la pittura nella sua globalità evidenzia contemporaneamente una certa sensazione o qualità apparizionale, se con il termine “apparizione” intendiamo l’idea di una comparsa insolita, straordinaria o inaspettata di qualcuno o di qualcosa precedentemente non immaginato, che entra all’improvviso nel nostro campo visivo. Perché tutti noi sappiamo che, come ha avuto modo di osservare Mallarmé molto tempo fa, “è davanti al suo foglio di carta che l’artista crea se stesso”, proprio come la tela bianca, vuoto spazialmente creativo, si trova dinanzi al pittore per essere riempita. E i riferimenti al vuoto hanno una particolare risonanza nei dipinti neri del pittore italiano Lorenzo Puglisi, dal momento che il suo utilizzo del vuoto totale è estremizzato allo scopo di essere riempito. Allo stesso tempo, l’azione di riempire il vuoto in questo caso ha una particolare risonanza francese, nel contesto attuale di Parigi, dove il famoso Yves Klein espose il suo lavoro e in seguito avrebbe compiuto il suo celebre “salto nel vuoto” psicologico e semiletterale. Il vuoto inevitabilmente rappresenta l’immenso cosmo, un luogo di oscurità punteggiato di luce, che fu di grande fascinazione per Blanqui e Benjamin. Tuttavia è dal vuoto più estremo o dall’oscurità che la visione può emergere. Come nei sogni, così nella vita creativa. Le indefinite condizioni acromatiche di bianco e nero rappresentano i livelli fondanti di materialità che forgiano e indirizzano i dipinti di Puglisi. Ma, come si sa, il bianco e il nero sono metafore comuni che si riferiscono alla chiarezza creativa, e di conseguenza alludono necessariamente agli stati umani di capacità intuitiva, di comprensione profonda. Non deve sorprendere quindi che per Puglisi il sodalizio tra materialità e storia dell’arte sia l’interesse fondamentale al centro della sua pratica pittorica. L’utilizzo acromatico del nero sia per le scene in notturna che come forma di espressione autonoma ha una lunga storia e il nero, inteso sia come materia che come coscienza, come sostanza o metafora, costituisce un aspetto psichico total- mente integrato e ininterrotto nell’opera di questo artista italiano.
Fantasmi nel vuoto
I fantasmi sono apparizioni cui si dà un altro nome, così come spettri, spiriti, presenze, entità eteree o visioni e l’elenco dei nomi potrebbe essere molto più lungo visto il numero di epiteti noti o adattabili. Ma l’aspetto più importante è se i fantasmi posseggano una natura psicologica ancora vitale oppure solo quella immaginaria di una mera proiezione. In altre parole se siano apparizioni con aspetti risonanti che li distinguano da pure costruzioni di fantasia. Le mezze figure spettrali che si vedono nei dipinti di Puglisi sono spesso pensate per essere dei doppi psicologici autorivelatori di loro stessi. Sono apparizioni spettrali che hanno una presenza e una rilevanza storica attuale come dipinti autonomi, e allo stesso tempo sono spesso ermetiche ma complesse metafore di dipinti preesisten- ti. Di conseguenza operano nell’ambito di una sfera visiva interiorizzata, dove testo e contesto convivono simultaneamente – proiezioni ottiche di cose viste e cose immaginate con la mente. Veri e propri Doppelgänger materiali, quindi, i dipinti generano allusioni a un mondo alternativo attraverso la presentazione di un oggetto parziale. Quanto Jacques Lacan chiamava Objet petit a definendo così l’oggetto della pulsione, del desiderio, ovvero per estensione l’impulso estetico. Puglisi esprime frequentemente l’idea di aver trovato la condizione sensoriale di una presenza estetica, e lo psicoanalista francese evidenziò questo impulso come la struttura psicologica fondante dello sguardo nella vita quotidiana – come la vera e determinante natura del guardare. Se per esempio prendiamo dipinti come Portrait 191115 e Portrait 281115, vediamo la testa e le mani della persona ritratta che paiono emergere dal vuoto nero di quanto sarebbe altrimenti un dipinto monocromo. Tuttavia quello che potrebbe inizialmente sembrare semplice è saturo di inferenze e rimandi, e mettendo per un momento da parte i riferimenti storici alle passate pratiche pittoriche di testa e mani tipiche delle botteghe antiche, troviamo nelle emaciate parti da lui dipinte presenze estremizzate che mettono in discussione la natura convenzionale della ritrattistica stessa10. Mentre da un lato sussiste un significato inglobante di oscurità barocca – l’artista afferma che “più inconsueta è la testa, più scuro è lo sfondo” – dall’altro c’è anche, probabilmente, un’altra allusione espressiva indiretta attraverso la densità delle pennellate e lo spessore del colore applicato con la spatola a coltello alle teste dipinte, un chiaro rimando ai teschi, elementi fondanti la simbologia della vanitas. Che ciò sia voluto o no, rimane pertinente in quanto amplia la metafora del fantasma e il senso materializzato della presenza spettrale.
Puglisi riconosce apertamente un’influenza che abbraccia le qualità misteriose dello sfumato pittorico (vago, velato, sfocato) del periodo barocco dell’arte. Come afferma lui stesso: “A me ha toccato moltissimo la questione dell’oscuri- tà nella pittura seicentesca”. Non tanto l’oscurità come specifica convenzione nella storia dell’arte, quanto piuttosto per la continuità estetica che presuppone per l’artista. Si tratta di una traccia continua pregna di significato, che fonde con il passato l’applicazione creativa e la rivelazione delle sue immagini presenti. Tuttavia si assiste a una differenza marcata in questo artista contemporaneo, dato che, mentre nel XVII secolo l’oscurità è legata a un crescente senso di tenebrismo e a un realismo narrativo, nel caso di Puglisi la superficie nera è interrotta vigorosamente da forme di fattura espressiva talvolta severa. Né l’artista segue la teatralità di molte delle strategie compositive diffuse nel XVII secolo. Non si tratta tanto di un contrasto tra luce e ombra, ma di una trasformazione di testa e mani in una struttura espressiva in contrasto con la piattezza assorbente del nero. Questi contrari formali e concettuali creati dall’uso dell’assorbenza del nero opaco e dall’utilizzo creativo materico del pennello, del puntale o della spatola, da soli aumentano il significato del dipinto, sia come entità autonoma che come traccia residuale, vero e proprio palinsesto abraso di riferimenti stratificati e accumulati – una sorta di microsituazione della continuità pittorica. Sotto questo aspetto l’interiorità psichica dei dipinti, come la versione grande e più piccola di Matteo e l’angelo, è probabilmente un esempio molto significativo. Mentre l’artista propone palesemente una citazione indiretta del celebre dipinto caravaggesco (1602), non fa semplicemente riferimento al dipinto per il gusto di farlo, ma per esprimere al contempo il fatto che celebri dipinti storici rimangono incastonati nella consapevolezza di un artista e diventano cifre fantasmatiche o perpetue in sé. Si spostano come apparizioni insolite e stranianti all’interno della psiche del pittore, affiorano imprevedibilmente alla mente attraverso la memoria involontaria o il ricordo fortuito. Un pittore trascorre parecchio tempo nel suo studio, luogo di particolare solitudine e di abituale introspezione, e per un pittore italiano i celebri dipinti del passato sono tutti interiormente incisi nella coscienza. Tuttavia l’impegno di Puglisi nei confronti del passato rinascimentale e barocco è sia di autoriconoscimento che di critica, come è evidente nel Grande Sacrificio, opera di grandi dimensioni su cinque tele congiunte che L’Ultima Cena di Leonardo, il celebre dipinto parietale a secco che il maestro fiorentino dipinse per la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano. Come in Matteo e l’angelo, e come nei vari ritratti da questo derivanti, utilizza un ampio repertorio di teste e mani, anche se il numero di mani utilizzate è stato modificato rispetto all’opera originale. Il dipinto di Leonardo è abraso in alcuni punti ed è stato restaurato in numerose occasioni, un punto di partenza appropriato e simile di riduzione dell’immagine per il soggetto scelto ed eseguito da Puglisi. Eppure quel che emerge veramente è un’attenzione sulla natura di testa e mani, nei gesti che elevano e modificano la qualità della nostra comprensione del significato dell’opera. Il senso della narrativa religiosa è sostituito, per opera dell’antropologia apparizionale, da una sorta di contenuto psico-antropologico autoriflessivo, cambiamento che rivela aspetti incorporei di richiamo mnemonico. Perché ciò che ricordiamo del passato non sono sempre i tratti del viso e gli atteggiamenti di coloro che abbiamo conosciuto e/o il ricordo di immagini che abbiamo veduto. Ed è lo stesso con Puglisi, in quanto nell’immagine storica “il volto è la parte più espressiva e di più profonda manifestazione dell’emozione umana: anche le mani esprimono molto... il viso è la parte che mi colpisce di più in un essere umano, tutta questa espressività e questa forza... il corpo, ecco, forse sento di esserne molto distante”. Non sorprende quindi che Leonardo sia tra gli artisti prediletti di Puglisi, e che l’impiego della gestualità da parte del grande maestro italiano in opere come il San Giovanni Battista (1513-1516) sia parte della consapevolezza intima, della conoscenza di Puglisi. Leonardo fu l’artista che per primo accostò gesto e coscienza in una espressione integrata dello spirito umano. Riferendosi alla propria Ultima Cena, lo stesso Leonardo palesa il significato della resa interattiva di mani e volti nei suoi personaggi: “Uno che stava bevendo e ha lasciato il suo bicchiere dove si trovava ha girato la testa verso chi parla. Un altro si volta con espressione seria e corrucciata verso il suo compagno mentre si torce le dita. Un altro ancora con le mani aperte mostra le palme, e scrolla le spalle sollevandole fino alle orecchie, atteggiando la bocca a stupore. Un altro parla nell’orecchio del suo vicino”. In ogni figura creata la relazione tra gestualità ed emozione la prima preoccupazione del maestro.
In tutti i dipinti di Puglisi è evidente la ricerca della natura interiore (meglio definita come “interiorità psichica”) dell’antropologia umana collegata alla resa di testa e mani. Il dipinto Il Grande Sacrificio può essere visto come una forma sincopata e tuttavia concentrata di espressione incorporea, distribuita su cinque tele unite. Una lettura del dipinto deve essere fatta da sinistra verso destra o da destra verso sinistra, ovvero in modo trasversale, a meno che non venga osservato da grande distanza dove si è in grado di accogliere in un solo sguardo il formato tipico della pittura di paesaggio. I puncta (punti visivi ben distinti), intermittenti e momentanei, rappresentati da macchie rosse come esempi di una delineazione interrotta, servono allo stesso tempo per dare consapevolmente una ulteriore connotazione storica al dipinto, in quanto si tratta di una convenzione sufficientemente comune della pittura romantica vista per esempio in pittori espressivi come Delacroix – artista che ricorreva spesso a composizioni indistinte e sviluppò un vasto impiego dello sfumato. E tuttavia i cosiddetti ritratti sono diversi non solo in quanto utilizzano ed enfatizzano il formato verticale tipico di questa categoria pittorica, ma anche perché possono essere visualizzati relativamente da vicino all’interno di un singolo punto di vista. E la vista ravvicinata riveste un si- gnificato estremamente importante per Puglisi, perché, come nelle frammentate teste espressive di Francis Bacon, dà importanza ai singoli elementi della pittura e al linguaggio stratificato dell’applicazione del colore. Sebbene si differenzi nel suo utilizzo del bianco e nero, percepiamo la medesima fascinazione per il movimento della pennellata, che vela o ricopre ogni gesto precursore, per la presenza nascosta di trama e ordito nel supporto della tela, per la struttura della testa o del teschio, e per i segni frammentati di momenti di espressione interrotti. Al contempo nelle teste di Puglisi c’è sempre un richiamo, più o meno intenzionale, alla maschera mortuaria, dato che pittura e morte sono sempre state intimamente collegate. Menzionare Bacon, un artista la cui opera è fortemente ammirata da Puglisi, significa rimandare a quanto potrebbe essere definito, con un’espressione azzeccata, una estetica esistenziale. Non si fatica a immaginare che i dipinti di Puglisi sarebbero perfetti da esporre in mostra insieme con opere di Bacon e Giacometti, dalla ridotta estetica esistenziale. È questo approccio tattile, basato sulla fattura materica di testa e mani, e la sua stretta affinità con l’umano – nelle opere di Puglisi ci sono pochi riferimenti all’ambiente naturale – che dà signifi- cato alla relazione e alla contrapposizione con la campitura nera che lo circonda. Rembrandt è un altro artista molto ammirato e spesso citato indirettamente nei ritratti di Puglisi, e per quanto questo riguardi la resa espressiva, per Puglisi è altrettanto importante il modo in cui le teste dei suoi modelli spesso appaiano come presenze luminose che emergono dallo sfondo scuro. Naturalmente Rembrandt è famoso per i suoi autoritratti, e si potrebbe argomentare che tutti i ritratti sono in un certo senso autoritratti di artista, dato che il modello è sempre soggetto all’interpretazione del pittore, che sia descritto o idealizzato. Del resto, nei dipinti di questo artista italiano compaiono spesso opere denominate autoritratti. Opere che tuttavia possono a malapena assolvere il compito di rivelare l’aspetto esteriore ai fini di un riconoscimento, ma che possono piuttosto suggerire astratte identità psicologiche come stati rappresentativi della mente. Quasi come se i gesti espressivi del realizzare un segno divenissero chiavi differenti che danno accesso a particolari vie di consapevolezza. È in questo senso che quando Puglisi parla di Goya e di Cézanne lo fa in riferimento alla capacità dei due maestri di dar vita a un poderoso senso tattile di incontro visivo e di esperienza. C’è una straordinaria, palpabile (se non sempre spettrale) sensazione di presenza materiale che l’artista ha anche realizzato in termini visivi, sensazione che gioca con una dialettica spaziale o cosmologica di allusione materiale e di assenza immateriale. Va fatto notare che, mentre ho continuamente usato la parola “espressivo” per descrivere i dipinti dell’artista, c’è una generale omissione delle parole “sensuale” e “sensoriale”. Se testa e mani estremamente espressive nei dipinti di Puglisi hanno una connotazione tattile e possono essere considerate nella loro fattura materica, palpabile, non devono essere interpretate come sensuali da un punto di vista psicologico. Questo è forse il più sorprendente paradosso creativo proposto dall’artista, un aspetto sensazionale e sensoriale stranamente forgiato e allo stesso tempo una qualità espressiva e cerebrale distaccata. Per esempio, nel lavoro intitolato Giove e Io, che rimanda al celebre dipinto del Correggio (1532-33), gli aspetti palesemente erotici e sensuali della nota opera sono completamente spazzati via. Naturalmente si potrebbe argomentare che è oltremodo difficile ottenere un effetto sensuale in una campitura nera acromatica dove gli eventi sono ridotti a testa, mano destra e piede sinistro della ninfa (se non attraverso lo sguardo e il desiderio estetico dell’Objet petit a di Lacan), oltre alla traccia del viso accennato e della mano sinistra di Giove. Per determinati aspetti il trattamento ricorda all’osservatore l’inversione positivo-negativo in fotografia. Dobbiamo ricordare che, in base al racconto delle celebri Metamorfosi di Ovidio, Io fu stuprata da Giove tramutatosi in nebbia o pioggia. Ma in questo caso Puglisi ha apportato materializzazione alla immateriale nefologia del mito. Discorso analogo potrebbe valere anche per il dipinto Il Giudizio, dove i particolari della figura centrale del Cristo michelangiolesco nel Giudizio Universale della Cappella Sistina sono allo stesso modo raffigurati solamente con la testa, la mano e il piede destri, accostati alla testa e al pugno destro chiuso della figura di san Bartolomeo flagel- lato, che compare in basso nell’affresco. Come già detto la riconoscibilità non è la questione più importante, perché visivamente i più non collegherebbero mai questi due dipinti ai loro precursori se non per i loro titoli ben conosciuti. Puglisi parla sempre di “una visione della realtà con un suo proprio significato”, e che il significato che lui cerca si trova nell’intimo dei suoi sentimenti personali e nelle risposte messe in campo nei processi pratici della sua pittura. Come lui stesso dice, in un chiaro omaggio a Leonardo: “Talvolta vedo una macchia su un muro, qualche cosa che la natura ha creato, eppure se quella macchia ha la forma di una testa, non so perché, ma a me interessa di più”. Questo sentimento personale e storico di antropocentrismo verso l’arte e la sua storia sostiene e domina gran parte del lavoro attuale dell’artista. Il mistero dell’oscurità che permea l’opera come punto di assorbimento è anche una forma di spiegazione autorivelatoria per Puglisi. Modella e indirizza l’impulso psicologico che conduce al contenuto sperimentale dei dipinti realizzati a oggi dall’artista.
“L’inizio e la fine dell’ombra si trovano tra la luce e l’oscurità e possono essere infinitamente ridotti o infinitamente ampliati. L’ombra è il mezzo con cui i corpi rivelano la propria forma”. (Leonardo da Vinci)
Ombre e oscurità recano con sé una palese affinità con il vuoto, dato che la parola “ombre” è proprio un sinonimo di apparizioni, visioni nascoste che emergono dall’oscurità, guardiani eterni del mitico Ade. Per questo non deve affatto sorprendere che la storia della pittura sia costellata di spiriti viventi e presenze significative che popolano la consapevolezza e la pratica quotidiane nello studio di un artista. Sono cosmo e luogo comune – contenuti onnipresenti nella vita dell’artista e possibilità spettrali di un futuro mondo espressivo ancora da venire.
Storico dell’arte, curatore e critico, Mark Gisbourne è nato in Gran Bretagna, ha studiato a Roma e risiede a Berlino. È stato Tutor del Courtauld Institute of Art, Università di Londra; Docente alla Slade School of Fine Art, University College, Università di Londra; e Docente Senior post-laurea in Arte del Dopoguerra e Contemporanea, presso il Sotheby’s Institute (programma di master dell’Università di Manchester). Già Presidente della British Art Critics Association (AICA) e Vicepresidente internazionale, ha co-organizzato il Congresso Mondiale dei Critici d’Arte alla Tate Modern nel 2000. Curatore e critico, le sue numerose pubblicazioni includono Berlin Art Now (Thames & Hudson, edizioni inglese e tedesca, 2006), Double Act: Two Artists One-Expression (Prestel, edizioni tedesca e inglese 2007), e tra i suoi libri recenti ci sono TERRAE ‘Manel Armengol’ (Turner Books, edizioni inglese e spagnola 2010); Martin Assig; Vasen, Gipfel, Menschen (Schirmer/Mosel inglese/tedesco, 2010); Ann Wolff (Kerber, edizioni tedesca e inglese).