di Franco Broccardi

Il mondo dell’arte è un qualcosa di oscuro, spesso. Qualcosa tra il misterioso e il terrificante. Una specie di film tra fantascienza e thriller psicologico in cui si aggirano altrettanto oscuri protagonisti.
Gli artisti, in primo luogo, quelli senza cui non esisterebbe l’arte e che in questo strano e ingarbugliato percorso spesso non vengono riconosciuti o considerati meno attori della cultura delle guide che accompagnano i visitatori a vedere le loro opere.
Gli intermediari, poi. Galleristi, case d’asta, mercanti vari su cui, in questo caso, sorvolo. Meriterebbero un capito a parte, attori non protagonisti che così non protagonisti non sono più. Paul Rosenberg, uno tra i galleristi più influenti della sua epoca, riscrisse le regole del mercato puntando sull’elitarietà, sul binomio gusto-qualità che, come ha affermato tempo fa Federico De Mellis su Il Manifesto, aveva un preciso risvolto sociologico: poco lo spazio concesso al piccolo-medio collezionista baudelairiano in cerca di un sapore; piena cittadinanza, invece, al magnate che vuole riscattare spiritualmente la brutalità del proprio operato. Un passo verso il fenomeno della finanziarizzazione del mercato conclamata dallo stesso Rosemberg quando scrisse a Picasso che i quadri sono diventati come titoli di borsa.
E poi i collezionisti.
Che strano animale è il collezionista? Un ricco borioso o un innamorato pazzo? Un feticista o uno studioso? Un assatanato ossessivo-compulsivo o un metodico ricercatore-conservatore? Comunque la si voglia vedere, però, la figura del collezionista ha un che di mitologico.

Danilo Sciorilli


Mario Praz, scrittore, saggista e collezionista di antiquariato, affermò a sua volta che sottoposta a psicanalisi la figura del collezionista ne esce male e dal punto di vista etico c’è certamente in lui qualcosa di profondamente egoistico e limitato, di gretto addirittura. Per Freud, invece, collezionare è un tentativo di riproduzione dei piaceri erotici dell’infanzia, tramite la creazione di un piccolo mondo su cui esercitare una padronanza e gestione totali; un rituale che ha lo scopo di contrastare gli impulsi aggressivi e sessuali. Giova aggiungere che Freud era, a sua volta, un collezionista di arte antica e tanto da dire di aver letto di più di archeologia che psicanalisi.
Mitologico, dicevamo. Un aggettivo che di per sé non ha accezioni positive o negative ma che, soprattutto, definisce un viaggio. Un viaggio oltre i confini della normalità.
Joseph Campbell nel suo studio di mitologia comparata, L’eroe dai mille volti, condensò l'essenza delle storie eroiche in uno schema ben definito: l'eroe abbandona il mondo normale per avventurarsi in un regno meraviglioso e soprannaturale. Qui incontra forze favolose, su cui riporta una decisiva vittoria. E ritorna dalla sua misteriosa avventura dotato del potere di diffondere la felicità fra gli uomini». In pratica tre fasi ben precise e ricorrenti: separazione, iniziazione, ritorno.
Proprio le teorie di Campbell illuminarono infatti George Lucas quando negli anni ’70 iniziò a pensare di scrivere una favola moderna: Avevo provato a leggere di tutto, da Freud a Paperino, ma quello fu il primo libro che mi spiegò cosa dovevo fare: era già tutto lì, da millenni, e Campbell me lo mostrò. Se non mi fossi imbattuto nelle sue opere, probabilmente oggi starei ancora scrivendo Star Wars. A volte per un lettore i libri sono più importanti degli autori, ma per me non è stato così: Campbell è il mio vero Yoda.
L’abbandono della vita normale per raggiungere il proprio tesoro e, una volta ottenuto, il ritorno a casa. Vale per Luke Skywalker, per Frodo e la sua compagnia dell’anello, per Ulisse. Quello stesso schema, separazione-iniziazione-ritorno, è simile al viaggio dell’artista nel suo percorso creativo e a quello del collezionista in quello verso le sue ossessioni.
Un altro viaggio, un’altra galassia e ancora una volta troviamo la strada verso il collezionismo: nella saga di Star Trek in una delle sue peregrinazioni interstellari l’Enterprise incontra una strana specie, i Ferengi.
Sono umanoidi parecchio avidi e votati a un capitalismo estremo. Accumulatori di ricchezza la loro società è retta dalle 285 Regole dell’Acquisizione e riconoscono i Cinque Stadi dell'Acquisizione: infatuazione, giustificazione, appropriazione, ossessione e rivendita.
È evidente come le dinamiche economiche dei Ferengi riportano a quelle alla base del collezionismo, al percorso che parte dal desiderio di possesso, dalla ricerca spasmodica del raggiungimento del proprio piacere che si placa, solo temporaneamente, con il possesso per giungere all’ultima fase, la cessione destinata all’ottenimento dei mezzi per ricominciare il ciclo ossessivo. È spesso un meccanismo ludopatico, un loop da cui è difficile uscirne. Ma è un male inevitabile per chi ne è soggetto.
Un esempio di fino a cosa la follia collezionistica porta a fare ce la racconta perfettamente la storia di John Paul Getty. Una storia che, anch’essa, in fondo, ha a che fare con il viaggio.
Considerato all’epoca l’uomo più ricco del mondo era anche un uomo parecchio avaro, legato al denaro come un Ferengi qualunque e come loro, si potrebbe immaginare, credeva che l'avidità, pur essendo essenziale nel sistema economico, non è in sé egoismo, perché inseguire l'avidità serve per un bene più grande.
Getty è l’uomo che aveva in casa telefoni a gettoni per far pagare le telefonate ai suoi ospiti. È quello che si rifiutò in un primo momento di pagare il riscatto per il nipote rapito in Italia (ho 14 altri nipoti, e se tiro fuori anche un solo penny avrò 14 nipoti sequestrati) e poi acconsentì dopo che gli fu recapitato un pezzo di orecchio ma solo dopo aver chiarito quanto potesse recuperare dalle tasse e aver concordato con suo figlio, il padre del ragazzo rapito, la restituzione del prestito con un interesse del 4%.
Quest’uomo, però, non esitò a spendere una fortuna in opere d’arte e, infine a costruire un museo a Los Angeles che non vide mai perché non amava volare e lui viveva in Inghilterra.
Un bene più grande. Era quello che un uomo dal cuore duro come Scrooge trovò nell’arte. Una specie di malattia che prende i collezionisti e che fa leva sulla vanità del possesso. Sull’avidità.


Qualcosa di non molto diverso da quello che diceva Gordon Gekko in Wall Steet all’assemblea dei soci di Teldar Carta: L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America.
L’avidità. È questo il motore del collezionismo.
Comprare opere d'arte di questi tempi è un'attività assolutamente e indiscutibilmente volgare. È lo sport preferito degli eurocafoni, del popolo degli hedge fund, dell’alta borghesia da sobborgo ricco, di oligarchi e petroligarchi trendy e di galleristi con un’autostima a livelli masturbatori. Le credenziali artistiche sono très à la page nell'importante business del mostrarsi colti, eleganti e, ça va sans dire, meravigliosamente ricchi. C'è qualcuno, tra questa gente, a cui piaccia davvero guardare un’opera d'arte? Non sono le parole di un artista rifiutato, di un collezionista frustrato o di un invidioso non dichiarato. A pronunciare queste parole è stato uno dei più grandi collezionisti al mondo, un uomo che nell’arte ha investito anche per guadagnare e non solo per autocompiacimento estetico: Charles Saatchi.
E arrivo al punto.
Il balloon dog è certo un oggetto meraviglioso. Vuole rafforzare nell’osservatore il senso della sua esistenza. Lavoro spesso con un materiale riflettente, rispecchiante, perché rafforza automaticamente nello spettatore la propria sicurezza di sé. Lo disse Jeff Koons parlando di sé e della propria arte.
La levigatezza degli oggetti, tipica delle opere di Koons, non è un argomento a caso. Ne ha trattato a fondo uno dei più interessanti filosofi contemporanei, Byung-Chul Han, filosofo coreano, in un breve saggio su La salvezza del bello.
La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana. Quello che intende dire Byung-Chul Han è che l’assenza di spigoli, di giunture, di imperfezioni incarna la contemporaneità comoda, positiva, consumabile. Quella che definisce una anestetizzazione del gusto in cui l’impronta economica ha la meglio e dove l’esperienza del bello ha poco altro da dire.
La levigatezza è il frutto dell’estetizzazione dell’arte, una deriva in cui è nell’oggetto in sé che si ritrova il valore, nel nome (o forse meglio nel brand,) più che nel valore artistico o culturale di un’opera. In cui, come dice Jean Baudrillard, la speculazione insensata sulle opere d’arte è una parodia del mercato, una derisione in sé del valore mercantile.
La bellezza, quindi, non è più un canone affidabile per definire un valore, talvolta non lo è neanche il significato. Non è questo che guida il mercato ma, semplicemente, è l’assecondare il gusto del pubblico come per qualsiasi altro prodotto, anticiparne le tendenze se non addirittura guidarle.


Il presente testo è apparso sul catalogo della mostra di Danilo Sciorilli "Tuttissanti", presso Osservatorio Futura a Torino, dal 2 novembre al 16 novembre 2024


Franco Broccardi è Dottore Commercialista, esperto in economia della cultura, arts management e gestione e organizzazione aziendale. Ricopre, tra gli altri, incarichi come consulente e revisore per Federculture, ADEI, ICOM oltre che come coordinatore della commissione di studio di Economia della Cultura presso la Fondazione di ricerca dei Commercialisti del CNDCEC e del comitato di gestione della Academy di Assobenefit.