di Marco Trulli

Pensare ad un ruolo attivo, trasformativo e vitale della cultura nella città contemporanea non può non portarci a riflettere sui margini urbani, sociali e culturali delle città. Non è nei centri monopolizzati dall'overtourism o dalle speculazioni finanziarie, considerati ormai inaccessibili e invivibili per gli stessi residenti che, a parte eccezioni, possiamo cercare laboratori sociali, luoghi di produzione culturale in grado di parlare al presente e al futuro delle città.

Come afferma l'urbanista Cellamare, in effetti “Il centro è sempre più il luogo del consumo culturale, mentre i quartieri ai margini sono gli spazi della produzione”[1]. Se i centri, intesi come luoghi di maggiore interesse turistico-monumentale e, insieme, di concentrazione di beni e servizi per le industrie del brand producono cultura, lo fanno per gran parte attraverso la presenza di grandi istituzioni museali, concertistiche, o di siti di interesse storico artistico e archeologico.

I molteplici filtri di carattere economico, istituzionale, di classe, di aggregazione urbana e del decoro urbano fanno sì che i processi culturali più interessanti e seminali si concentrino ai margini delle città, nei luoghi in trasformazione e in attesa, che si coagulano intorno a luoghi postindustriali, a spazi rigenerati da processi informali o da rigenerazioni fallite, talvolta anche in spazi pubblici concessi dalle pubbliche amministrazioni o in beni confiscati alle mafie.

In questi quartieri, spesso periferici o marginali, crescono le progettualità culturali più “disordinate” e meno “decorative” e, talvolta, determinano veri e propri distretti e circuiti, vedi il caso di Roma est. Sono circuiti collaborativi e non competitivi, da cui scaturiscono anche festival e rassegne itineranti, scambi di artisti e coproduzioni.

Abitare i margini del giorno

Il margine della città è allora il luogo pulsante di vita dove spazi di promozione culturale dal basso (spesso incentrate sulla musica come le grassroots music venues inglesi) agiscono utilizzando luoghi dalle più differenti destinazioni d'uso, trasformandoli in spazi dal grande potere evocativo e centri di sperimentazione e condivisione artistica. Sono i centri culturali Arci che abbiamo censito con Essere moltitudine, autoinchiesta curata da cheFare che ha coinvolto 420 realtà di promozione culturale dal basso in tutta Italia, focalizzando alcuni concetti tra cui proprio quello dei margini. I circoli e i centri culturali Arci nascono spesso in risposta ad un bisogno latente e non soddisfatto, si sviluppano per coltivare ambiti artistici e culturali che non rientrano nelle politiche culturali territoriali, esistono per praticare un diverso modo di stare negli spazi culturali e di aggregazione della città. Non da clienti, ma da soci, si entra in un circolo. Questo, come afferma Emanuel Bonetti del Fanfulla di Roma, “vuol dire accettare le nostre proposte, condividerle, perché rifiutiamo chi si pensa come cliente, rifiutiamo l'idea che qualcuno entri nel circolo per consumare”[2].

I margini del giorno sono spesso i momenti in cui i circoli Arci, quelli più attivi nella promozione musicale e i live club, accendono le proprie attività e accolgono i soci. La notte, spesso raccontata come momento della massima espressione del “disagio giovanile” o dello sballo, è il momento in cui i circoli diventano una delle poche opzioni per chi ha voglia di vivere oltre gli orari canonici imposti dalle ordinanze comunali. In questo frangente così complesso e delicato, diversi circoli rispondono con empatia e cura, utilizzando metodi comunicativi che rendono chiara l’attenzione del circolo contro la violenza di genere.

Per chi decide di abitare ai margini del giorno, i circoli sono spazi da abitare in cui si lavora responsabilmente per abbassare la soglia di rischio e si creano le condizioni per vivere a pieno un momento di socialità, di svago e aggregazione[3].

Sono diverse le esperienze di circoli che attraverso un lavoro sulla comunicazione, sulla formazione e responsabilizzazione dei volontari, sulla messa a disposizione di presidi psicologici e di riduzione del rischio nell’assunzione di droghe, operano per rendere più sicura e meno esclusiva l’esperienza della notte.

La creazione di un'offerta culturale e aggregativa che vada oltre gli orari consueti, ci porta a riflettere anche su come istituzioni culturali di margine riescano a intercettare i bisogni delle comunità e a ridisegnare in maniera più flessibile e tailor made la propria offerta culturale. In alcuni casi, ad esempio, i centri culturali di Essere Moltitudine assumono anche una funzione di rifugio sicuro, di luogo dove stare per giovani che a casa non si sentono a loro agio per una serie di condizioni, di ragazzi e ragazze che non vogliono tornare a casa durante le festività e si ritrovano nella comunità del circolo (come il circolo Zalib a Trastevere). Quanto le istituzioni culturali “convenzionali” riescono a rispondere a questo tipo di bisogni “marginali”?

Nuove ritualità dello stare insieme

I circoli e i centri culturali di notte sono anche luoghi di sperimentazione dove reinventare modi e riti di stare insieme, dove artisti di varia natura possono collaborare per reimmaginare spazi e programmi secondo logiche nuove, smontando le gerarchie consuete dell’evento. L'orizzontalità dei processi decisionali, le direzioni artistiche condivise, la presenza assidua degli artisti come soci dei circoli e la dimensione di ritrovo e comunità, determinano le condizioni per la costruzione di format collaborativi che sperimentano nuove ritualità notturne e riscrivono le strutture del clubbing, attraverso sperimentazioni artistiche destinate a diventare seminali, come Tropicantesimo, “una specie di macchina del tempo in cui tutto è possibile e tutto è contemporaneo”[4]. I circoli diventano così spazio delle possibilità, luoghi di sperimentazione in cui si trasfigurano anche le marginalità e i paradossi della vita urbana. Il circolo Fanfulla diventa un giardino tropicale popolato dalle piante spontanee nate ai margini delle strade assolate del Pigneto e qui contribuiscono a creare un nuovo senso dello spazio.

Ogni circolo ha la sua storia, le sue radici e le sue ragioni. Ogni spazio nasce da una domanda. In alcuni casi le domande che sono all’origine della nascita di un circolo si perdono nella storia e nelle storie che hanno attraversato uno stesso spazio. Questo per dire che ci sono circoli la cui data di nascita risale a più di cento anni fa, alla nascita delle case del Popolo, all’organizzazione del tempo liberato dentro spazi di socializzazione, presenti soprattutto in area tosco-emiliana ma non solo. In questi spazi, che nel corso di più di un secolo hanno subito evoluzioni, trasformazioni e vissuto la crisi della politica e della partecipazione da molto vicino, si sperimentano sempre più frequentemente gestioni degli spazi ibride, che tra gli aspetti più tradizionali e quelli più contemporanei provano a trovare una sintesi, a concertare bisogni differenti e unire la bocciofila con la rassegna cinematografica indipendente, ad ospitare incontri di critica d’arte o residenze artistiche in un contesto di frequentazione popolare.

In questo incontro ai margini  si ridefiniscono e si negoziano infinite possibilità di costruzione di scambi e collegamenti tra orizzonti apparentemente opposti e incomunicabili, eppure sembra il terreno florido per abbattere steccati generazionali e tentare di aprire canali di comunicazione e convivenza tra usi dello spazio, lessici e obiettivi differenti.

Nuove identità degli spazi, oltre la “sicurezza”

Sono diverse le marginalità sociali su cui i circoli lavorano, dai circoli rifugio ai banchi alimentari, dagli sportelli di prossimità sociale e cura di quartiere, ai doposcuola e alle ludoteche, fino alle mense popolari e ai progetti di welfare culturale, sempre pensati in un'ottica mutualistica e non assistenziale, attivando, insieme a questi servizi, anche campagne e vertenze politiche.

I circoli sono luoghi non proprietari che si contraddistinguono per l'ambizione di essere popolari, accessibili e intergenerazionali, solidali e non elitari. Partendo proprio da una logica non assistenziale ma che mira all'emancipazione delle soggettività, la discussione più urgente che gli spazi Arci stanno affrontando è quella sull'attraversabilità (walkability) degli spazi stessi, ovvero su come abbattere soglie visibili e invisibili per essere accoglienti, sicuri e garantire a tutte le identità presenti di esprimersi e sentirsi a proprio agio.

Tuttavia, lo stesso utilizzo del termine “sicuro” è controverso e latore di discussioni per il rimando alla sua accezione repressiva e ispettiva, vista l'attitudine di governi di qualsiasi colore ad usare il termine sicurezza come strumento di repressione del dissenso. Si capisce quindi la fase altamente rigenerativa che attraversano circoli e centri culturali, in via di ridefinizione come luoghi queer, spazi in cui la rappresentazione di culture femministe e genderless si sta imponendo come tema prioritario e intersezionale. Si tratta di un percorso di trasformazione che è in atto e che riguarda in modi diversi il nostro paese ma su cui si registrano pratiche interessanti di responsabilizzazione nella governance degli spazi, di comunicazione, oltre che di attivismo politico e culturale.

Dentro i margini geografici

Le aree interne sono il territorio in cui è forse più difficile promuovere cultura in maniera continuativa, cercando di sfuggire ad un’ottica provinciale e stantia sintetizzata nel frame “cultura per lo sviluppo turistico”. In un panorama di assenza strutturale di servizi essenziali, di strutture educative, sembra sempre più a rischio, soprattutto per i giovani abitanti delle aree interne, la possibilità di desiderare di continuare a vivere in queste zone, vista anche la carenza di spazi e proposte culturali. Le risposte di carattere culturale sono spesso modulate dalle amministrazioni territoriali secondo modelli estrattivi mutuati dalla dimensione metropolitana oppure ispirati ad una dimensione bucolica, ad una rivendicazione identitaria e territorialista fintamente ispirata ai tempi che furono. Nonostante questo tipo di ricette siano sempre più utilizzate dalla politica, ci sono tentativi interessanti di fare i conti con alcuni dati di fatto (lo spopolamento, la mancanza di servizi essenziali e di investimenti su politiche culturali contemporanee) e di lavorare sulla valorizzazione della cittadinanza ubiqua. Visto il gap digitale e quello della consapevolezza della centralità della cultura per far crescere un'idea condivisa e stimolante di territorio accogliente, i giovani tornano nelle aree interne per immaginare festival, progetti artistici che dialoghino con il contesto, provando a costruire comunità consapevoli “che siano in grado di valorizzare la complessità contemporanea dei territori senza appiattirne le peculiarità”[5].

Una analisi attenta delle pratiche che si snodano sul e con il margine, nella sua accezione più ampia e polisemica, ci consente di leggere le trasformazioni più interessanti in atto e di capire come in molti casi, le politiche culturali che si sono interessate delle marginalità sono state permeate da un paternalismo retorico che le ha rese inefficaci.

Stare ai margini, camminare lungo i bordi, vuol dire provare a costruire nuove rappresentazioni e modelli che dei bordi hanno l'estetica, il linguaggio, il senso e l'urgenza, vuol dire riposizionare il paradigma culturale rifiutando l'idea che siano i centri ad occuparsi dei margini e ricreando alleanze e mutualismi tra margini e tra margini e centri.


Marco Trulli Curatore e operatore culturale, è laureato in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi della Tuscia. Dal 2006 lavora come operatore culturale presso Arci Solidarietà Viterbo srl realizzando progetti socio-culturali e artistici. Nel 2005 ha fondato Cantieri d’Arte, progetto di arte contemporanea nello spazio pubblico che ha prodotto negli anni residenze, workshop e mostre nella città di Viterbo e nella Tuscia, sperimentando modelli di interazione dell'arte con il tessuto sociale e urbano e realizzando anche una serie di opere permanenti nel territorio. Si interessa in maniera specifica della relazione tra le forme del poetico e del politico che attraversano lo spazio pubblico mediterraneo. Negli ultimi dieci anni ha collaborato in diverse occasioni con BJCEM – Biennale dei Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo per la quale ha curato numerosi progetti internazionali in Italia e all'estero. Ha fatto parte del gruppo di curatori di Panorama, progetto di monitoraggio della scena artistica contemporanea italiana promosso da La Quadriennale di Roma. Nel 2022 è stato componente del comitato scientifico del convegno Arte e spazio pubblico promosso da Ministero per la Cultura e Fondazione Scuola per i Beni e le Attività Culturali. Dal 2023 è responsabile Cultura e Giovani di Arci nazionale; ha scritto saggi, pubblicazioni e articoli sul ruolo della cultura e delle arti nello spazio pubblico e nel territorio. Vive e lavora a Viterbo e Roma.


[1] Periferie. Gli "ultimi posti" e i luoghi della vitalità delle città / Cellamare, C.. - (2019), pp. 103-112.

[2] Dal podcast “La notte non si consuma”, a cura di Francesco Pacifico

[3] “Noi siamo il posto che chiude più tardi di tutti e dove arrivano quindi tutte le persone della notte di Torino” racconta Anna  Maria Bava di Magazzino sul Po in una delle videointerviste di Essere Moltitudine

[4] Nicola Gerundino, “Tutta la musica è possibile: Hugo Sanchez”, https://zero.eu/it/persone/tutta-la-musica-e-possibile-hugo-sanchez/#:~:text=Molte%20persone%20ci%20dicono%20che,suono%20che%20non%20sulle%20storie.

[5] Lorenzo Carangelo, Ri-tessere le aree interne, https://che-fare.com/almanacco/societa/spore-visioni-sparse-ritessere-le-aree-interne/