di Franco Broccardi e Sara Rivolta

Il regime fiscale delle fondazioni: tra trasformazioni, agevolazioni fiscali e criticità 

Quello delle fondazioni, e più in generale del non profit, è un settore che negli ultimi anni sta attraversando un periodo di grande crescita e trasformazione. Il progetto di riforma del Terzo Settore, ovviato ormai dieci anni fa dal nostro esecutivo, ha voluto riordinare il settore dal punto di vista civilistico e fiscale, con l’obiettivo ultimo di costruire un nuovo welfare partecipativo che superasse la vecchia dicotomia pubblico – privato e si basasse sulla complementarità tra profit e non profit.

Il Terzo Settore si è sempre posizionato nella terra di mezzo tra Stato e Mercato, intervenendo spesso nei casi di governement failure e rispondendo alla domanda di beni sociali che lo Stato, per motivi di vincoli della spesa pubblica o di rigidità dell’apparato burocratico, non riusciva a fornire nelle quantità e modalità richieste. Avendo finalità di utilità sociale, ha sempre svolto un servizio che va a integrare quello offerto dalla Pubblica Amministrazione e per questo motivo il Legislatore ha cercato di supportarlo, anche attraverso un trattamento fiscale di favore. E anche le trasformazioni che hanno interessato negli ultimi anni la normativa fiscale del Terzo Settore vanno in questa direzione: sostenere lo sviluppo e la crescita del settore attraverso il rafforzamento delle agevolazioni fiscali concesse agli enti non profit.

Ma prima di entrare nel merito della riforma e dei cambiamenti che ha portato, facciamo un breve excursus sul regime fiscale delle fondazioni nel quadro normativo anteriforma.  

Il regime fiscale delle fondazioni anteriforma

Nella normativa tributaria italiana il termine fondazione compare raramente: questa rientra nella macro-categoria degli enti non profit, o meglio, degli enti non commerciali. Il diritto tributario non distingue tra enti che perseguono o meno una finalità di lucro, ma piuttosto tra enti commerciali e non commerciali sulla base dell’attività che perseguono in via esclusiva o principale - ossia quella attraverso cui realizzano direttamente finalità primarie indicate dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto. La discriminante è se questa attività, per l'appunto, sia commerciale o meno con riferimento a quanto previsto dal Codice civile e dagli artt. 2195 c.c. e 55 del TUIR. Il Codice definisce come commerciale un’attività, svolta in modo abituale con regolarità e stabilità, che rientra tra le seguenti: “1) un’attività industriale diretta alla produzione di beni o  di servizi; 2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) un'attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) un'attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti”. L’art. 55 del TUIR amplia la definizione chiarendo che, se l’ente è organizzato in forma d’impresa, l’attività, pur non rientrando in quelle elencate nell’art. 2195 c.c., è commerciale.

Dunque, ai fini fiscali, non rilevano la natura pubblica o privata del soggetto né la rilevanza sociale delle finalità perseguite, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati, ma solo l’attività esercitata dall’ente.

Le fondazioni, così come tutti gli altri enti non profit, possono svolgere anche attività di natura commerciale, generando delle differenze nel trattamento fiscale: un ente non commerciale che esercita esclusivamente attività istituzionali (vale a dire attività non commerciali) è esente dall’IRES, se invece esercita anche attività commerciali è soggetto all’IRES (con aliquota del 24%) per il reddito d’impresa e obbligato a tenere separata la contabilità istituzionale da quella commerciale.

Il trattamento fiscale di vantaggio di cui godono le attività istituzionali per le imposte dirette viene meno per quanto riguarda l’IVA. Infatti, sono assoggettate ad IVA solo le cessioni di beni e prestazioni di servizi aventi natura commerciale, mentre le operazioni non commerciali sono fuori dal campo di applicazione dell’IVA. Per un ente che svolge solo attività istituzionali l’IVA sugli acquisti è indetraibile e rappresenta a tutti gli effetti un costo. Un ente che esercita invece anche attività commerciali potrà godere della detraibilità dell’IVA su quegli acquisti relativi all’attività commerciale che svolge.

Oltre alla non rilevanza delle attività istituzionali ai fini delle imposte dirette, il Legislatore prevede una serie di altre agevolazioni fiscali per il settore non profit.

Ad esempio, l’art. 6 del DPR 601/197 prevede una riduzione del 50% dell’aliquota IRES per determinate categorie di enti non commerciali (es. enti e istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza, ecc.).  Di particolare rilevanza per le fondazioni, e gli enti non profit in generale, poi, è l’esenzione IMU per gli immobili posseduti da enti non commerciali e destinati ad un uso istituzionale o di culto.

Infine, vengono previste una serie di agevolazioni fiscali per attrarre erogazioni liberali che danno origine ad un intreccio complesso e articolato di norme:

·         La legge sulle Onlus[1] stabilisce, per le persone fisiche, una detrazione del 19% della donazione dall’IRPEF (per un importo massimo di 2.065,83 euro) e, per le persone giuridiche, una deduzione dal reddito di impresa per un importo non superiore a 2.065,83 euro o al 2% del reddito dichiarato.

·         La legge “più dai, meno versi”[2]  introduce la possibilità, sia per le persone fisiche che giuridiche, di dedurre dal proprio reddito complessivo, nella misura massima del 10% e comunque non oltre i 70.000 euro annui, le erogazioni liberali in favore di fondazioni e associazioni riconosciute che si occupano di tutela, promozione e valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico e paesaggistico o di attività di ricerca scientifica.

·         La legge sull’art bonus[3] prevede un credito d’imposta del 65% per le erogazioni in denaro effettuate, sia da persone fisiche che giuridiche, per la manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, a favore degli istituti e luoghi della cultura pubblici e del settore dello spettacolo, o per il restauro e realizzazione di strutture di enti che svolgono esclusivamente attività nello spettacolo.

Per quanto riguarda l’ammissibilità o meno al beneficio fiscale dell’art bonus, un tema che può risultare di particolare interesse per le fondazioni è quello sollevato dalla Quadriennale di Roma. La Quadriennale è una fondazione partecipata da enti pubblici, proprietaria, e qui sta il problema, di una collezione d’arte pubblica. La proprietà delle opere, in quanto asset patrimoniale, determina il fatto che, in caso di scioglimento della fondazione e secondo la normativa del Terzo Settore, dovrebbe essere devoluto ad altri enti non profit rendendo di fatto non applicabile l’art bonus alle erogazioni liberali ricevute. Una circolare dell’Agenzia delle Entrate dello scorso dicembre ha però aperto ad un’interpretazione diversa, indicando, “l’appartenenza pubblica sussiste anche qualora l'istituto:

-          sia costituito per iniziativa di soggetti pubblici e mantenga una maggioranza pubblica dei soci e dei partecipanti;

-          sia finanziato con risorse pubbliche (…);

-          gestisce un patrimonio culturale di appartenenza pubblica, conferito in uso al medesimo soggetto (cd. concessionario);

-          sia sottoposto, nello svolgimento delle proprie attività, ad alcune regole proprie della pubblica amministrazione, quali gli obblighi di trasparenza o il rispetto della normativa in materia di appalti pubblici;

-          sia sottoposto a controllo analogo di una Pubblica Amministrazione (…).

Come conseguenza di quanto appena illustrato, in presenza di una o più delle suddette condizioni, gli istituti ed i luoghi della cultura di appartenenza pubblica ma con personalità giuridica di diritto privato, ad esempio perché costituiti in forma di fondazione, mantengono comunque una natura sostanzialmente pubblicistica e, pertanto, le erogazioni liberali ricevute per il sostegno della loro attività beneficiano del credito di imposta in esame.[4]

Il nuovo quadro normativo introdotto dalla riforma del Terzo Settore

L’entrata in vigore del Codice del Terzo Settore[5] ha rappresentato un momento importante di trasformazione per il mondo non profit e il culmine di un processo di riforma avviato precedentemente dal nostro Governo, con l’obiettivo di riordinare il settore dal punto vista civilistico ma soprattutto da quello fiscale, superando la disomogeneità e stratificazione normativa che lo contraddistingueva. Il Codice attua la legge delega[6], con cui il Consiglio dei Ministri si era posto una serie di obiettivi di riqualificazione e riordino della disciplina del settore. Tra i principali obiettivi relativi all’ambito fiscale c’erano:

·         la revisione della definizione di ente non commerciale, anche in ragione delle finalità di interesse generale perseguite dall’ente;

·         l’introduzione di un regime tributario di vantaggio basato su razionalizzazione e semplificazione delle agevolazioni fiscali connesse alle erogazioni liberali a favore del mondo non profit.

Il Codice del Terzo Settore (d’ora in avanti CTS), per quanto abbia dato un contributo importante in termini di razionalizzazione della normativa e affermazione del ruolo del non profit, ha però in parte disatteso questi due obiettivi.

In merito al primo punto, la necessità di rivedere la normativa nasce dalla volontà di prioritizzare le finalità di utilità sociale perseguite piuttosto che la natura delle attività esercitate e di favorire una sostenibilità economica di medio-lungo periodo degli enti del terzo settore. Infatti, focalizzare l’attenzione sulla commercialità o meno delle attività mina la stabilità economica delle organizzazioni, spingendole a propendere per le attività istituzionali. Esse finiscono per preferire e ricercare fondi che dipendono dalla generosità di soggetti terzi (contributi pubblici e privati), piuttosto che costruire un modello di business solido che permetta il sostentamento e la crescita dell’attività. Al fine di correggere queste logiche, la Riforma si proponeva come obiettivo quello di rivedere la definizione di ente non commerciale in ragione delle finalità perseguite.

Il CTS ha introdotto sì una nuova categoria generale sotto il nome di Enti del Terzo Settore (ETS), caratterizzata dal perseguimento delle finalità non lucrativa e di interesse generale e che prescinde dal carattere imprenditoriale delle attività esercitate; tuttavia, da un punto di vista fiscale, ha riaffermato la definizione precedente ripiegata sulle attività. Ai fini tributari viene infatti riproposta la distinzione tra ente commerciale e non commerciale sulla base delle modalità con cui vengono esercitate le attività di interesse generale.  

L’art. 79 del CTS specifica che un’attività è da considerarsi non commerciale se svolge le attività d’interesse generale a titolo gratuito, o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi, oppure se  generano ricavi che non superano di oltre il 5% i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre due periodi d’imposta consecutivi. Se un ente svolge in via esclusiva o prevalente le attività di interesse generale in conformità a questi criteri, allora assuma la qualifica di ente non commerciale ai fini delle imposte dirette. D’altra parte, un ente viene qualificato come commerciale se i proventi delle attività d’interesse generale, svolte in forma d’impresa non rispettando i criteri sopra indicati, superano le entrate derivanti da attività non commerciali (rappresentate da contributi, sovvenzioni, liberalità, quote associative).

Se in merito alle imposte dirette il CTS riafferma la distinzione tra ente commerciale e non commerciale, per quanto riguarda le imposte indirette cerca di superare questa dicotomia, valorizzando lo svolgimento di attività nei settori di interesse generale. L’art. 82 introduce una serie di benefici fiscali in termini di imposte sulle successioni e donazioni, imposte di registro, ipotecarie e catastali e altri tributi, legandoli allo svolgimento di attività istituzionali da parte dell’ente e non alla loro eventuale natura commerciale.

Per quanto riguarda invece il secondo obiettivo, il CTS è intervenuto per riordinare ed estendere il regime delle agevolazioni fiscali concesse a chi effettua erogazioni liberali a favore degli enti non profit. L’art. 81 ha introdotto il cosiddetto “social bonus”: un credito d’imposta, pari al 65% per le persone fisiche e al 50% per le persone giuridiche, che spetta a chi effettua erogazioni liberali in denaro a favore di ETS assegnatari di immobili pubblici inutilizzati e/o confiscati alla criminalità organizzata e impiegati per lo svolgimento di attività di interesse generale attraverso modalità non commerciali.

L’art. 83 del CTS ha invece ampliato il ventaglio di potenziali beneficiari, ammettendo alle agevolazioni fiscali le erogazioni liberali, sia in denaro che in natura, a favore degli ETS (escluse le imprese sociali costituite in forma di società) indipendentemente dal fatto che svolgano o meno attività commerciali. Alle persone fisiche viene concessa una detrazione del 30% (con limite massimo pari a 30.000€) o, in alternativa, una deduzione del 10%, mentre alle persone giuridiche la deduzione concessa è pari al 10% del reddito d’impresa.

Di fatto, l’intervento del CTS non ha consentito una razionalizzazione del sistema di agevolazioni fiscali a sostegno delle erogazioni liberali, ma ha contribuito ad una stratificazione normativa ulteriore. Più in generale, per certi aspetti il CTS ha portato all’affermazione di un multistrato normativo che ha aggravato, anziché risolvere, il coordinamento tra una disciplina e l’altra, dal momento che la sua disciplina non ha una portata generale, ma si applica solo alla categoria degli Enti del Terzo Settore, escludendo tutto il mondo non profit che non si qualifica come tale.


[1] D.Lgs n. 460/1997

[2] D.L. n.35/2005

[3] L. 83/2014

[4] Circolare Agenzia delle Entrate n.23, 28 dicembre 2023.

[5] D.Lgs. n.117/2017

[6] L. n.106/ 2016