Impresa sociale: quello strano animale œconomicus
di Claudio Bossi
Provo a rappresentare il mio punto di vista, il punto di chi pratica e ha praticato l’impresa sociale nelle sue diverse forme giuridiche (cooperative sociali, società a responsabilità limitata e società per azioni). Un’ampia e articolata dotazione di “architetture societarie” differenti per “tipologie di proprietà”. Nelle imprese sociali in forma cooperativa la proprietà è delle persone fisiche e del loro lavoro remunerato, che diventa, nella sua eccedenza di conto economico, patrimonio indivisibile. Nelle imprese sociali di capitali la proprietà è di chi conferisce il capitale e che decide di “metterlo al lavoro” affinché produca valore. In entrambe le situazioni la remunerazione (del lavoro e del capitale) non è l’unico obiettivo. Li accomuna, non solo la produzione di valore economico, ma la produzione di valore di interesse generale a favore del benessere della comunità.
L’impresa sociale si dota di uno scopo che va oltre al benessere dei soci e degli azionisti. Persegue un ulteriore benessere, quello sociale, collettivo, o, meglio ancora, l’interesse generale della comunità. La modalità utilizzata per raggiungere gli obiettivi (remunerazione del lavoro e del capitale, produzione di benessere comunitario) è quella dell’impresa comunemente intesa. L’intraprendere quale azione economica finalizzata a produrre valore attraverso modelli organizzativi efficaci ed efficienti, un’articolazione delle conoscenze e delle competenze e da una spinta all’innovazione. Strumenti questi necessari a qualsiasi imprenditore sociale o non che sia.
Questa breve e incompleta premessa per descrivere a sommi capi questo attore economico e sociale quale è l’impresa sociale. Un’ attrice (visto che impresa è nome femminile) che ancora deve farsi conoscere dagli altri attori e attrici, nonché al regista, che cavalcano la scena del mercato. Nonostante gli ormai oltre 30 anni di esistenza, (del 1992 la prima legge sulle cooperative sociali), ancora oggi questo animale viene visto con sospetto, circospezione, non se ne capisce l’intenzione, lo scopo, il senso del suo essere e stare nel mercato e nella società. Spesso viene confuso con il volontariato (che per assioma fa del bene disinteressato) altre volte, visto il suo essere giano bifronte, viene visto con fare sospetto: quali interesse reale persegue? Come fa a tenere insieme una spinta individuale (remunerare il lavoro e/o il capitale) con un desiderio collettivo (il benessere della comunità) per mezzo di un’impresa? Quali sono le sue reali intenzioni? E questi sospetti e titubanze li senti arrivare sia dal modo dell’impresa tradizionale (non mi piace chiamarla for profit) che dal mondo della cosa pubblica (la politica e la pubblica amministrazione). E come non dare loro ragione! Per l’impresa tradizionale se il tuo unico obiettivo non è il profitto allora non sei un’impresa. Per chi si occupa e gestisce la cosa pubblica se sei un’impresa (sociale) non puoi perseguire il bene comune, hai un interesse privato.
Ebbene, hanno entrambe ragione. L’impresa sociale è un ossimoro. Ma.
Ma oggi la nostra società ha bisogno di nuovi attori economici in grado di interpretare e dare risposte alla complessità che stiamo attraversando. Risposte al disagio sociale che stiamo vivendo e alla forbice delle diseguaglianze che sempre più si allarga. Ad una società che fatica a tenere dentro tutto e tutti.
L’impresa sociale, grazie alla sua duplice finalità (generare valore economico e sociale) è uno strumento che può consentire di allargare il benessere (e aggiungo, sia per chi la fa e sia per chi fruisce dei suoi servizi). Ovviamente non è il solo e non ha la presunzione di essere sufficiente.
Qui vorrei, suggerire alcune riflessioni e spunti che, con l’obiettivo di allargare il consenso verso l’impresa sociale, consentano di aprire un po’ di più le porte a queste imprese e alla loro legittimazione.
Legittimità: è necessario legittimare il duplice scopo dell’impresa sociale, in particolare nelle sue forme di impresa di capitale. È giusto, perdonate l’imperativo di parte, favorire quelle imprese che tengono insieme l’obiettivo economico e l’obiettivo dell’interesse generale. Questi due obiettivi possono coesistere, non sono in competizione tra loro, non divergono. Non si tratta di un favore. Si tratta di riconoscere la necessità di un nuovo attore imprenditoriale da coltivare nel panorama socioeconomico. Si tratta di riconoscere il valore sociale delle attività delle imprese sociali. Di quanto il loro agire contribuisca a generare benessere comunitario e a calmierare gli effetti negativi della società di oggi. Oggi più che mai. In un sistema sociale, quale quello contemporaneo, dove le risorse pubbliche a favore dell’interesse generale sono sempre più scarse. Dove l’accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi, culturali è sempre meno universale e sempre più discrezionale in funzione della capacità di spesa dei cittadini.
Ma attenzione, il ruolo dell’impresa sociale non è solo un ruolo che tampona (o meglio cerca di) una scarsità economica. E’anche un ruolo di attivatore di relazioni, di connessioni, di costruzioni di comunità di cittadini, di socializzazione, di giustizia e di equità, di compartecipazione, di inclusione e coesione sociale. La loro azione, proprio per la tipologia di attività che generano (ben descritte nelle L. 106/2016 e il DLGS 112/2017), è un’azione che va oltre alla riparazione dell’accessibilità economica ai servizi. Le imprese sociali sono attivatrici di socialità e di corresponsabilità verso il bene comune.
La legittimità passa anche da un sistema fiscale che riconosca lo sforzo nella direzione dell’interesse generale. Oggi questo sistema, anche se da migliorare, esiste. Diciamo che fatica ad affermarsi e a dotarsi di strumenti che contribuiscano a sostenere il valore sociale del fare impresa sociale. Un esempio per tutti è la fiscalità che oggi non fa differenza tra un’impresa sociale di capitali e un’impresa tradizionale. Manca un sistema di premialità fiscale. Proprio per il suo contributo al benessere sociale della collettività (e quindi non solo ai propri shareholder) andrebbe defiscalizzata la sua azione imprenditoriale. Perché non riconoscere questo “valore di produzione di bene comune” e dare quindi maggior ossigeno all’impresa sociale? Un’impresa sociale oggi ha, giustamente, dei vincoli legati alla remunerazione del capitale. Di contro è insufficiente la premialità fiscale in coerenza con lo sforzo di perseguire l’interesse generale.
Sì ma… non una de-fiscalità solo soggettiva (mi defiscalizzi in quanto sono impresa sociale), ma una de-fiscalità applicata in funzione dell’impatto sociale che un’impresa sociale genera. In questi anni si è costruito un robusto sistema di valutazione dell’impatto sociale. Oramai la letteratura è forbita di modelli, metriche, parametri che valutano l’impatto sociale. Possiamo quindi misurare e determinare con sufficiente precisione quali vantaggi sociali un’impresa sociale ha generato e genera attraverso le sue attività e di conseguenza quale de-fiscalità applicare. E’ un tasto delicatissimo questo che rischia di accendere controversie. Ma credo che valga la pena di farci qualche ragionamento, scientifico (e non sono io il titolato).
La legittimazione dell’impresa sociale non passa solo, e direi neanche tanto, attraverso l’architettura giuridica che la istituisce e la norma. La legittimazione passa soprattutto dal consenso sociale e, visto che di imprese parliamo, dalla comunità di imprese tradizionali che operano sul mercato. Ma non solo, anche l’altra parte del giano bifronte è chiamato in causa, ovvero la pubblica amministrazione, da chi ha l’arduo compito di garantire una distribuzione equa delle ormai scarse risorse destinate al bene comune.
E’ necessario quindi creare ponti e occasioni di dialogo (non tanto convegnistico) che sappiano mettere in sinergia le imprese tradizionali con le imprese sociali. Più volte mi sono ritrovato a spiegare che tipo di animale oeconomicus è la mia “S.p.A. Impresa Sociale”. Nei rapporti di lavoro con altre aziende e imprenditori questo acronimo S.p.A. i.s. ha generato diversi e contrastanti moti. Chi non ne sapeva l’esistenza, chi “ah un buon modo per pagare meno tasse”, chi altro “ma gli utili li fate?” oppure “…la vostra associazione”. Insomma, c’è molta strada da fare. E l’unico modo è “fare della strada insieme” per capirsi e conoscerci. Personalmente sono molto più attratto dal collaborare con imprese tradizionali che con imprese del mio genere. Perché credo che questo “del dialogo collaborando” possa aprire porte impreviste verso campi fertili per entrambi gli interessi. Possa generare ulteriore valore: economico e sociale. E allora diventa necessario “istituire” strumenti normativi e campi d’azione che facilitino e sostengano il dialogo e la connessione operativa tra le imprese tradizionali e le imprese sociali.
Ecco che si affaccia, almeno per me, la sfida che fa gettare il cuore oltre l’ostacolo. Una S.p.A.–i.s. che agisce nel mercato della cultura e più precisamente nel mercato della musica. Oggi è più “capibile” un’impresa sociale che si occupa di servizi di welfare piuttosto che di cultura. In qualche modo c’è molta sintonia (ad esempio nel linguaggio) tra impresa sociale e servizi di welfare/sociali. Se invece andiamo a “seminare campi culturali” con l’aratro dell’impresa sociale, allora le cose cambiano un po’. E’ meno comprensibile ai più (dagli imprenditori tradizionali ai dirigenti della pubblica amministrazione) il nesso tra impresa sociale, cultura e il suo mercato. Ci è più semplice associare i servizi di cura al bene comune, ci è più difficile fare la stessa cosa con la cultura. Come se la cultura fatichi ad essere considerata un bene comune fruibile attraverso un sistema generato e sviluppato da imprese sociali. La cultura o è roba da volontariato (la compagnia teatrale dell’oratorio, la band di ragazzini del quartiere) o è un bene esclusivo, dove per produrla e/o fruirla devi essere economicamente benestante. Ecco, la sfida di una impresa sociale che agisce nel mercato della cultura sta nella sua capacità di renderla fruibile a chi ha scarse capacità economiche e di consentire una remunerazione del lavoro soddisfacente per gli artisti e gli addetti ai lavori. Ma la cultura è soprattutto quel tessuto connettivo di una società con il quale tessere socialità, relazioni, inclusione, appartenenza.
Oggi credo che vi siano diversi fattori che ostacolano il radicarsi dell’impresa sociale nel tessuto socioeconomico. Forse i più importanti risiedono nella sua scarsa conoscenza a molti (dagli imprenditori agli amministratori pubblici passando dai singoli cittadini) e nei fraintendimenti generati dal suo duplice obiettivo (economico e sociale). Eppure, c’è voglia di impresa sociale. C’è un desiderio, in particolare nei giovani, di nuovi modelli imprenditoriali che diano un diverso senso e significato al nostro agire oeconomicus.
Imprenditore sociale, amministratore delegato di Music Innovation Hub S.p.A. impresa sociale. Dopo una breve esperienza di ricercatore universitario nell’area socioeconomica, Claudio Bossi ha sviluppato la sua attività attraverso la creazione e sviluppo di imprese sociali, sia di natura cooperativa che di capitale. Ha rivolto particolare attenzione all’ambito degli interventi di rigenerazione urbana dall’housing sociale, ai servizi di welfare comunitario, dei servizi di sanità leggera e in area culturale e musicale con l’obiettivo di rigenerare il tessuto sociale ed economico dove questi interventi si innestano con un approccio teso a valorizzare e integrare le diverse risorse territoriali (economiche, sociali, pubbliche e private). Parallelamente alla sua attività imprenditoriale ha svolto attività di consulenza e formazione nel campo dell’impresa sociale sia per soggetti privati che pubblici.