di Davide Dal Maso

L’“invenzione” dell’impresa sociale ha rappresentato l’innovazione più importante degli ultimi decenni nell’ambito dell’economia sociale e uno degli elementi di maggior interesse nel dibattito sull’argomento, anche dal punto di vista culturale.

Nelle intenzioni di chi ne ha promosso l’istituzionalizzazione, vi era l’idea di dare una veste giuridicamente coerente a delle pratiche che già si stavano realizzando nella realtà e che puntavano a risolvere l’apparente contraddizione tra un fine (quello della generazione di valore sociale diffuso) e un mezzo (quello dell’impresa commerciale) che erano sempre stati visti come antitetici tra loro. È chiaro il richiamo ai principi dell’economia civile, secondo cui la spinta all’azione imprenditoriale non va ricercata solo nell’istinto egoistico alla massimizzazione del profitto per uno degli stakeholder (il proprietario del capitale) ma nel desiderio di perseguire una visione etica orientata dalle virtù, che invece ricerca la creazione di benefici per una più vasta platea di attori. I teorici dell’economia civile cercano di superare la logica per cui Mercato e Stato costituiscono due sfere alternative l’una all’altra, delle quali l’una ha il monopolio della creazione di ricchezza e l’altra il monopolio della distribuzione (attraverso la tassazione, che finanza le politiche sociali). Nella visione dell’economia civile, invece, la giustizia sociale può essere perseguita non a scapito del mercato, ma nel mercato o addirittura dal mercato. Da questo punto di vista, l’impresa sociale si presenta come lo strumento principe, l’archetipo: genera e distribuisce; produce valore sociale nello stesso atto di creazione del valore economico; nel mentre fa una cosa, fa anche l’altra – senza idiosincrasie, senza trade-off.

Date queste premesse, è naturale che gli studiosi e i promotori politici dell’economia sociale abbiano salutato l’introduzione nel nostro ordinamento del nuovo istituto dell’impresa sociale come una straordinaria occasione di tradurre in pratica la teoria di cui erano sostenitori. Da questo atteggiamento di grande favore è derivata una lettura piuttosto indulgente sull’evoluzione del fenomeno per come si è effettivamente realizzato nella realtà.

La tesi che qui cercherò di argomentare è che, al di là dei buoni propositi, l’obiettivo di cambiamento della normativa del 2006 (poi riformata nel 2017) non si può dire, oggettivamente, sia stato raggiunto e che di fatto l’istituto dell’impresa sociale, così com’è, non funzioni. Ho formato questa mia convinzione sulla base dell’esperienza maturata nell’ambito dell’attività professionale svolta in Avanzi – e in particolare in due delle sue iniziative, quella di a|cube, incubatore e acceleratore di social business attivo dal 2011, e quella di a|impact, fondo di venture capital a impatto, attivo dal 2018. Ho avuto a che fare con decine e decine di imprenditori sociali (o aspiranti tali), diversi per età, percorsi, settore di intervento, fase di sviluppo del progetto, dimensione dell’azienda e così via e tutti, con rarissime eccezioni, hanno sempre dimostrato nei confronti del modello dell’impresa sociale ex lege una esplicita avversione.

Naturalmente, della sola aneddotica non ci si può fidare. Guardiamo perciò ai numeri: delle circa 20.000 imprese sociali esistenti in Italia, più del 90% sono cooperative sociali. La stragrande maggioranza di esse è classificata impresa sociale non per scelta delle società stesse, ma perché il decreto 115/06 ha stabilito che lo dovessero diventare. In altre parole, la gran parte delle imprese sociali italiane sono tali perché la legge le ha così trasformate. Il legislatore, cioè, ha creato uno stock iniziale di imprese sociali, costituito da soggetti che già svolgevano un’attività imprenditoriale a finalità sociale e che, in forza di diritto, si sono viste appiccicata una nuova etichetta – senza peraltro che questo cambiasse gran ché (in positivo o in negativo) rispetto a quello che erano o facevano prima.

Se si guarda a quello che è successo negli anni successivi, e in particolare dopo la riforma del terzo settore del 2017, le proporzioni sono un po’ cambiate, nel senso che la quota delle cooperative sociali rispetto al totale delle nuove imprese sociali, pur rimanendo largamente maggioritaria (quasi 3 su 4), è in lieve calo. Ovviamente, è difficile stimare quanto, nella scelta di costituirsi come cooperativa sociale (e quindi impresa sociale) abbia pesato l’interesse verso la forma cooperativa rispetto allo status di impresa sociale. Va inoltre registrato il fatto che, soprattutto in un caso specifico, una normativa regionale ha spinto alla creazione di un numero abnorme di imprese sociali nel territorio di riferimento, creando un picco isolato altrimenti inspiegabile. Sta di fatto che, alla fine, le imprese sociali non cooperative (cioè quei soggetti che, pur non essendo obbligati a farlo, consapevolmente e intenzionalmente hanno acquisito lo status di impresa sociale) sono poche centinaia. È vero che sono in aumento e che quindi, sul totale delle nuove imprese sociali, il peso relativo delle non-cooperative sta crescendo, ma continuiamo a parlare di valori, in termini relativi e assoluti, molto bassi. Di fronte alla dimensione delle sfide che l’economia sociale (e, al suo interno, l’impresa sociale) è chiamata ad aggredire, credo si possa affermare, oggettivamente, che la norma del 2006 abbia fallito l’obiettivo di creare una nuova categoria di operatori economici.

Quindi, la domanda da porsi è: perché chi vuol fare impresa con finalità sociali non sempre (anzi, quasi mai) sceglie la forma dell’impresa sociale ex d.lgs. 112/17? La risposta, a mio avviso, è da ricercare proprio nei requisiti qualificati indicati nel decreto. Paradossalmente, cioè, proprio quelle caratteristiche che, secondo il legislatore, rendono sociale l’impresa, agli occhi di molti imprenditori sociali rendono poco imprenditoriale lo strumento.

Col senno del poi, possiamo forse ritenere che la preoccupazione maggiore del legislatore del 2006 fosse quella di “aprire troppo”, cioè di consentire l’ingresso nel dominio del sociale di operatori non pienamente allineati, che avrebbero finito col compromettere la purezza del terzo settore. Che la cifra distintiva del decreto sia la paura lo si capisce dal fatto che quasi tutte le norme esprimano dei divieti o dei limiti: sulla distribuzione degli utili, sulla compagine societaria, sulle remunerazioni, sulle plusvalenze. Si tratta di un impianto regolatorio difensivo, che esprime sospetto, che alza barriere, che tende a “tener fuori” più che a “portar dentro”.

Da dove nasce questo approccio? Va ricordato che la norma del 2006 si colloca alla fine di un percorso storico che ha visto la formula dell’impresa sociale affermarsi come evoluzione delle esperienze associative e movimentiste delle ultime decadi del ‘900: forme di volontariato e di azione politica che si affiancavano (o si sostituivano) all’azione pubblica e che si sono progressivamente trasformate in quasi-imprese attraverso la produzione di beni e di servizi a valore sociale. La comunità di cura di ragazzi ex tossicodipendenti che cercano un nuovo equilibrio attraverso l’attività agricola; giovani che rientrano da esperienze di volontariato internazionale e che avviano piccole attività commerciali per la valorizzazione dei prodotti del sud del mondo; famiglie con figli disabili che organizzano laboratori di piccolo artigianato: in questo tipo di iniziative, l’intento fondamentale non era tanto quello di fare impresa, ma di contribuire alla soddisfazione di bisogni sociali, soprattutto di gruppi marginali, in condizioni di sostenibilità economica. è in questo mileu che nasce la cooperazione sociale, da cui deriva il modello che poi viene cristallizzato nel decreto 115/06.

Nel frattempo, però, a partire dagli anni ’10 del 2000, è partito un percorso di segno opposto, promosso da individui o da piccoli gruppi, non necessariamente inquadrabili in movimenti organizzati, totalmente alieni da riferimenti ideologici, che semplicemente (si fa per dire) vede nell’impresa uno strumento per contribuire alla soluzione di questioni sociali. Qui non c’è una visione politica assunta a priori, non ci sono schemi precostituiti, non ci sono meta-organizzazioni guida (la chiesa, il movimento, il partito, il sindacato …); ci sono dei problemi da affrontare e delle idee per [provare a] risolverli. Per costoro, il bisogno sociale rappresenta un’opportunità di mercato. Detta così, sembra un atteggiamento cinico, ma, in realtà, si tratta solo di un approccio pragmatico, focalizzato, chirurgico, forse anche un po’ disincantato rispetto a chi applica una lettura tutta politica del ruolo dell’impresa sociale.

Questa seconda generazione di imprenditori sociali non si riconosce nel modello di impresa proposto nel decreto originario del 2006 né in quello riformato del 2017. Se volessimo trovarne uno cui tendono, sarebbe piuttosto quello delle startup innovative a vocazione sociale (l. 221/2012) o quello delle società benefit (l. 208/2015). Il motivo principale di questa idiosincrasia sta, come detto sopra, nella visione che propone e nei limiti che impone. Provo a spiegare con alcuni esempi. Il primo è l’aperta avversione al ruolo del capitale: l’impresa sociale non può distribuire dividendi (se non in misura molto limitata), non può essere controllata da enti for profit, non riconosce la possibilità di accedere al valore economico accumulato. Risultato: nessun investitore considera l’impresa sociale come un oggetto cui guardare. Anche quando, per il tipo di modello di business che adotta, l’impresa avrebbe bisogno di capitale di rischio. Anche quando l’investitore (come nel caso dei fondi impact) ha degli obiettivi allineati con quelli dell’imprenditore sociale. Il timore che il capitale (in quanto tale) possa corrompere l’integrità morale dell’impresa sociale e che quindi chi lo apporta non possa esercitare poteri o avanzare pretese proporzionati al rischio che corre ha finito con l’allontanare gli investitori da questa asset class (che, infatti, tale non è mai diventata).

Il secondo esempio è la visione pauperistica: la remunerazione di manager e amministratori è cappata. Anche se bravi, motivati, capaci di ottenere risultati, non possono essere pagati secondo quanto il mercato consente o richiede. Sembra quasi che non rilevi l’esito (anche sociale, non necessariamente economico) del loro lavoro; l’importante è che guadagnino poco.

Il terzo è la scarsa apertura all’innovazione, a partire dagli ambiti di intervento. Non si spiega il motivo per cui, per esempio, si possa fare impresa sociale in alcuni ambiti (stabiliti dalla norma stessa con un elenco tassativo) e non in altri.

Le critiche al modello dell’impresa sociale possono essere condivise o meno, ovviamente. Il modello non lucrativo può essere legittimamente ritenuto migliore e difeso. Sta di fatto che, come dimostrano i numeri, viene snobbato, soprattutto dagli imprenditori sociali di nuova generazione. Ora, gli scenari possibili, a mio avviso, sono quindi due: o si insiste sul modello attuale, pur sapendo che non è attraente, e ci si continua a ripetere che va bene così, perché magari, anno su anno, si registra un qualche punto percentuale di crescita – ma rimanendo, di fatto, in una situazione di ininfluenza. Oppure si rovesciano i termini della questione, evitando di dire quello che l’impresa sociale non può fare, ma guardando invece agli effetti della sua attività. Il paradosso è che oggi il sistema investe un’enormità di risorse per verificare il rispetto di requisiti del tutto formali e non si interessa a quello che l’impresa sociale produce in termini di risultati. Il limite principale dell’attuale disciplina dell’impresa sociale sta nel fatto che presta troppa attenzione a cose poco importanti e viceversa. Si concentra quasi esclusivamente sugli input e trascura gli outcome. L’obiettivo strategico di un’impresa a finalità sociale dovrebbe essere quello di produrre un cambiamento, eppure il termine impatto compare una sola volta nel testo del decreto di riforma, peraltro nell’articolo dedicato alle scritture contabili, riferito ad una attività di valutazione del tutto decontestualizzata. È come se il legislatore fosse più preoccupato del fatto che l’imprenditore o l’azionista guadagnino poco (o, ancor meglio, nulla) piuttosto che del cambiamento sociale che generano. Ma, se un’impresa produce effettivamente un impatto sociale positivo, perché dovrei dolermi del fatto che chi ci ha investito venga remunerato? Perché lo dovrei considerare un disvalore? Lo dico diversamente: dov’è la prova del fatto che la natura non for profit di un’organizzazione, di per sé, offra una garanzia o anche solo aumenti la probabilità di generare un risultato sociale positivo? Mi è ben chiaro (non sono un ingenuo) che c’è una tensione tra dimensione sociale e dimensione economica – ma imporre la natura non lucrativa dell’ente non è un modo un po’ semplicistico per gestire il conflitto? Non sarebbe più maturo riconoscerlo, quantificarlo (per esempio, fissando degli obiettivi sia economici sia sociali) e monitorandone l’andamento dinamico?

Credo si sia ormai compreso che, dal mio punto di vista l’impresa è sociale quando realizza un impatto sociale. E lo fa in modo intenzionale, misurabile e addizionale. Ovviamente, se si accetta questa prospettiva, diventa fondamentale il processo di valutazione dell’impatto che, per essere credibile (e quindi dare credibilità a tutto l’impianto) deve essere trasparente, rigoroso e solido. Su metodi, indicatori, tempi, su verifiche, controlli, accreditamenti, indipendenza, su tutti i mille problemi che ogni sistema di accountability si porta dietro, si può e si deve discutere. Ma francamente troverei molto più interessante e costruttivo ragionare di questo piuttosto che della percentuale aggiuntiva della RAL fissata dal CCNL.


Davide Dal Maso è CEO di Avanzi – Sostenibilità per Azioni