di Bertram Niessen

Tre tipi di margine nella cultura italiana oggi

La quantità di pubblicazioni, progetti, public program e iniziative che studiano, osservano, decantano il margine e la marginalità è in costante crescita. I motivi sono diversi.

Da un lato, la capacità di presa di voce e di influenza sulle agende comunicative e politiche di una serie di gruppi sociali storicamente marginalizzati è in costante crescita in molti paesi occidentali: le istanze femminili, LGBTQI+, delle persone non bianche e dei diversamente abili stanno diventando sempre più visibili, di pari passo con la messa in discussione dei privilegi storicamente sedimentati di chi si trova “al centro”. E per quanto sia evidente il tentativo costante di bloccare la presa di spazio di questi punti di vista, è anche evidente che la domanda di produzione, distribuzione e consumo di forme di cultura diverse da quelle tradizionali – che in questo caso vuol dire pensate da persone bianche, ricche e eterosessuali – è in costante crescita. Sono i margini sociali di cui parla bell hooks dalla prospettiva di una donna nera nata in una numerosa famiglia operaia del Sud segregazionista degli Stati Uniti: luoghi di possibilità radicale dove costruire alleanze e resistenze impreviste tra chi si trova escluso, per un motivo o per una molteplicità di motivi, dai privilegi riservati a chi sta al centro.

Da un altro punto di vista, si parla molto di margini quando ci si riferisce a istanze di giustizia urbana: i margini sono allora quelli delle periferie, identificate genericamente come luoghi lontani dal centro delle città nei quali si condensano e si moltiplicano le forme di povertà e di disagio. Ovviamente non tutte le periferie spaziali sono marginali dal punto di vista sociale. Anzi, in molti casi ai confini delle nostre città sono stati costruiti quartieri residenziali dove il problema principale è quello dell’eccesso di normalità, mentre in molte città medie i centri storici sono stati desertificati dalle politiche di turistificazione e si ritrovano a soffrire molto più delle periferie. Nonostante la necessità di una costante sintonizzazione situata (perché la marginalità in un’ottica di giustizia urbana non è data dallo stare più o meno vicini alla piazza centrale) è chiaro che la questione dei margini urbani è sempre più importante. È uno sguardo che si ibrida con molte altre riflessioni contemporanee sul diritto alla città: dalle questioni sull’abitare a quelle sulla città dei 15 minuti; da quelle sulla cultura di prossimità a quelle sulla mobilità sostenibile.

C’è poi una terza lettura dei margini che è caratteristica di quei paesi dell’occidente segnati da una contrapposizione tra aree fortemente urbanizzate e aree altamente spopolate, come la Spagna (dove si parla di España vaciada, Spagna svuotata) e l’Italia (dove si usa la definizione di Aree Interne). In questi paesi, porzioni significative del territorio sono afflitte da una distanza rilevante dai centri di offerta di servizi essenziali come istruzione, salute, mobilità e cultura. Sono prevalentemente aree montuose e collinari e caratterizzate da un basso livello di densità abitativa, in cui nella maggior parte dei casi la traiettoria demografica porta verso la contrazione e l’invecchiamento degli abitanti, con intuibili corollari di criticità sui piani economici, sociali, culturali e – in alcuni casi – ambientali. In questi casi, parlare di margini vuol dire adottare soprattutto una prospettiva di giustizia spaziale che vuole riconoscere agli abitanti di questi luoghi gli stessi diritti di chi vive nelle aree urbane.

Due secoli di retorica nel margine

Questa attenzione ai margini è uno dei principali fermenti del mondo culturale in Italia degli ultimi anni – con più o meno ovvi antecedenti e paralleli su scala internazionale - e trova fortunate risonanze nelle due sfere spesso troppo distanti della cultura istituzionale (quella prodotta dai principali musei, teatri e case editrici) e della cultura dal basso (quella che nasce dal terzo settore culturale, dalla società civile e dalle organizzazioni che si pensano come indipendenti). In un mondo nel quale si moltiplicano le forme di disuguaglianze e di ingiustizia, è necessario costruire politiche e strumenti migliori per sostenere la cultura che parla ai margini ma – soprattutto – quella che viene dai margini.

E a questo proposito, è necessario interrogarsi su quanto questa attenzione sia realmente nuova o se – piuttosto - non si tratti di un’attualizzazione di qualcosa che è con noi da molto tempo. Capire come il discorso sui margini è intessuto con le nostre idee di mondo e di cultura può aiutarci a costruire pratiche e politiche migliori con chi ci vive.

 Per provare a rispondere a questa domanda si potrebbero prendere in considerazione storie molto diverse. Come quella delle tante declinazioni messianiche che vedono nelle religioni – abramitiche ma non solo – una piattaforma di liberazione degli oppressi, o in molti casi una manifestazione divina che solo attraverso il discorso con - e degli - oppressi si rivelano appieno. Oppure quella della filantropia moderna, costruitasi nel corso dell’800 e fondata su ideali tipicamente legati alla borghesia in via di consolidamento come la carità laica e la promozione delle competenze di base di una forza lavoro in costante espansione. O, ancora, quella delle forme di mutualismo degli operai e degli agricoltori che sentivano il bisogno di costruire forme di solidarietà orizzontale tra chi stava ai margini inferiori della piramide sociale.

 C’è però un tipo particolare di discorso sui margini che trovo da sempre profondamente affascinante perché è probabilmente il più pervasivo nel mondo e – allo stesso tempo - quello dei cui effetti siamo meno consci. Mi riferisco al discorso sul valore della marginalità che lega strettamente le idee di cultura, arte e stili di vita, e che si è consolidato poi nella nostra idea del mondo attraverso le forme di consumo.

È un discorso – o forse sarebbe più corretto definirlo “regime discorsivo” – che è arrivato da lontano ma che solo con il Romanticismo ha assunto alcuni dei suoi tratti più distintivi. Molti di quelli che oggi consideriamo tra "i più grandi artisti della storia dell'umanità" devono la loro fortuna critica alla costruzione nella critica e nella storiografia romantica di mitologie che li vedono come figure extra-ordinarie in grado di esprimere una soggettività fuori dal comune attraverso le proprie opere. Una singolarità che porta con sé la maledizione del “genio” divenuta nota come "sregolatezza”: un corredo variabile di alcolismo, omosessualità, ludopatia, erotomania, malattie, povertà e pazzia. Con il Romanticismo si è stabilito insomma che il genio artistico è condannato a portare un fardello che lo pone nella sofferenza, ai margini.

Il margine come luogo mitico di sofferenza e creazione è uno spazio mitico condiviso tra i nuovi gusti delle élite colte che leggono Goethe e Hegel e i primi consumi culturali di massa: quelli dei feuilleton di Hugo sui quotidiani francesi o delle cartoline a grande tiratura che riproducono il “Vagabondo sopra a un mare di nebbia” di Friedrich. Ed è seguendo questa traiettoria che si sviluppa una romanticizzazione della vita dei gruppi sociali al margine. Se nella vita quotidiana i vagabondi continuano ad essere temuti e scacciati - mantenuti cioè adeguatamente "ai margini" - nel nuovo e crescente sistema di circuitazione di opere culturali vengono invece costantemente raccontati, sognati, idealizzati.

A un certo punto dell'800 - d'altro canto - i marginali hanno finito per crederci davvero, all'esistenza di un proprio destino radioso. Se le insurrezioni e le rivoluzioni di quel secolo sono state soprattutto portate avanti da una borghesia che reclamava la sua nuova centralità, è sempre stupefacente riscoprire la molteplicità di sperimentazioni di vita - e quindi di tipologie di marginalità - che le affollarono: esoteristi, vegetariani, anarchici, socialisti, regicidi, ladri, truffatori, galeotti, prostitute, nobili decaduti, bestemmiatori, mistici, satanisti, sostenitori dell'amore libero, e così via. Ed è lungo questa traiettoria – quella del credere a un nuovo mondo possibile - che si si sono sviluppati modi di leggere il nostro posto nella vita che utilizziamo ancora oggi. Boltanski e Chiappello, nel loro "Lo spirito del nuovo capitalismo", hanno delineato la genealogia di due forme di critica all'esistente - e di conseguenti modi di intervenire su di esso - che hanno influenzato in modo determinante la storia dell'Occidente negli ultimi due secoli. La "critica sociale" è un'emanazione diretta del pensiero socialista e marxista, che mira a orientare il cambiamento della società combinando istanze tipicamente moderne (come la lotta alle disuguaglianze) con elementi considerati anti-moderni (come la critica al principio di individualità). Ed è ciò che ha dato origine alle traiettorie del mutualismo delle quali parlavamo qualche pagina sopra, e in una certa misura anche ad alcune forme di filantropia (si pensi all’imprenditorialità del socialismo utopico di Robert Owen, e forse anche al comunitarismo di Adriano Olivetti). La "critica artistica", invece, affonda le sue radici negli ideali del Romanticismo, cercando di attualizzarli. Pone quindi grande enfasi sull'importanza delle identità, delle libertà e dell'espressione individuale (un tratto decisamente moderno), mentre si oppone costantemente alla standardizzazione e al disincanto del mondo moderno, che privilegia la razionalità economica a scapito della ricerca estetica: quel sistema di valori e di lettura del mondo che ha dato origine a ciò che conosciamo come “bohémien”.

Nel corso del '900, critica sociale e artistica si sono intrecciate in vari modi nei movimenti sociali, nelle sottoculture, nelle posizioni degli intellettuali e nei programmi dei partiti, venendo progressivamente assimilate e normalizzate. Da un lato, il capitalismo ha integrato parte della critica sociale attraverso i percorsi socialdemocratici e lo sviluppo del welfare pubblico; dall'altro, ha accolto la domanda di autenticità, individualità ed espressione personale della critica artistica, incorporandola nelle pratiche di consumo.

È esemplare, in questo senso, la storia della nascita della categoria merceologica degli adolescenti. Sostanzialmente ignorata fino alla fine della prima metà del '900, l’adolescenza è stata “creata” negli Stati Uniti degli anni '50 per definire una nuova tipologia di consumatori. Nell’esplosione della società dei consumi ci si rese conto che - mentre la maggior parte dei consumatori adulti cercava beni standardizzati e anonimi - molti adolescenti venivano attratti dalle estetiche del mostruoso, del fenomenale e dell’atipico. Del marginale. È in questo filone di consumi culturali che si diffusero riviste di comicità demenziale come Mad, o quelle di “weird tales” (racconti strani: in realtà esistenti da qualche decennio ma che qui trovarono una nuova giovinezza nell’incontro con nuovi filoni di pulp e fantascienza). Ma la cosa che più di ogni altra detonò nella triangolazione tra elogio dello spirito bohémien, neonata categoria degli adolescenti e apertura di nuovi settori delle industrie culturali fu il rock 'n' roll: urla belluine, promesse di sesso selvaggio, danze equivoche, commistione di neri e bianchi, allusioni alla droga e rivolta contro i genitori.

Anche se le sottoculture giovanili – intese come organizzazioni “di banda” caratterizzate da stili spettacolari e dal rifiuto più o meno esplicito del potere costituito – esistono da tempi immemorabile, fu solo con lo sdoganamento portato dai mercati delle industrie culturali che iniziarono a trovare un posto nella cultura “mainstream”, quella accessibile alla maggior parte dei consumatori. Anzi, l’immaginario dei margini nel corso tra gli anni ’60 e ’70 divenne uno dei principali carburanti per l’economia dell’immateriale in costante espansione. Fu un’operazione che passò soprattutto da una costante normalizzazione dell’anormale, come nel caso dei “punk che prendono il tè con la nonna” ricordato da Dick Hebdige. E che, attraverso numerosi passaggi che qui non abbiamo lo spazio per prendere in considerazione, ci ha portato alla situazione degli anni ’20 che si compone – a mio avviso – di due aspetti complementari.

Il primo è quello della marginalità normalizzata. I Rolling Stones ottuagenari che cantano Satisfaction, il Vasco settantenne che urla Coca Cola, i notai che collezionano Harley Davidson, i murales utilizzati per la beautification dei quartieri di lusso sono fenomeni che possono rientrare – sotto diversi punti di vista – in questo filone.

Il secondo è quello della marginalità romanticizzata. Gli incontri dove la borghesia urbana bianca legge storie sullo schiavismo negli Stato del Sud dell’800, i libri di poesie sulla vita a passo lento nelle Aree Interne e in meme sulla vita pura di chi ha poco rientrano a pieno titolo in questa corrente.

In questi regimi estetici e discorsivi non c’è nulla che “non va”. Poche cose bloccano la trasformazione sociale come le liste di proscrizione su quali forme culturali (quali idee, quali discorsi, quali estetiche) sono più o meno trasformative. La visione de “La signora in giallo” può assumere caratteristiche straordinariamente progressiste o protervamente reazionarie a seconda dei modi, dei tempi e dei contesti. Dal punto di vista che stiamo assumendo, la critica ha senso quando ci fornisce degli strumenti concreti per progettare ed agire trasformazioni sociali positive. Altrimenti si riduce ad un dispositivo - autoconsolatorio o autopromozionale - di messa in mostra di capitale culturale. Per il discorso che stiamo facendo qui, le cose importanti da dirci sono due.

La prima è che – nella stragrande maggioranza dei casi - i marginali non sono contenti di stare ai margini. Certo, nella storia c'è un numero enorme di gruppi grandi o piccoli che hanno scelto di isolarsi in mondi a parte: dalle comunità meticce in fuga nelle foreste della Louisiana o del Brasile agli eremiti della Vecchia Religione tra gli alberi della Siberia. Questo non toglie che vivere ai margini faccia spesso schifo. Vuol dire vivere in povertà, ammalarsi più spesso, non avere le risorse per curarsi e morire prima. Vuol dire – e su questo non ragioniamo mai abbastanza – venire costantemente sorpassati e dominati da chi si trova in posizioni di privilegio, in modo più o meno esplicito e più o meno consapevole. Perché se (forse) è vero che “i soldi non fanno la felicità” è vero però che stare in una posizione periferica e subalterna rispetto alla produzione, circuitazione e accumulo di capitali economici, sociali, culturali e simbolici porta molto spesso all’infelicità. Perché stare ai margini vuol dire prevalentemente non essere nelle condizioni per realizzare una piena soggettivazione individuale e collettiva; dove con “soggettivazione” intendo in questo caso una piena realizzazione delle proprie potenzialità e aspirazioni per la ricerca e il perseguimento del benessere e della felicità.

La seconda è che – nonostante tutte le decostruzioni che possiamo provare ad operare sulle retoriche della marginalità – resta vero che la stragrande maggioranza delle produzioni culturali significative nella cultura occidentale sono state prodotte in luoghi sociali e spaziali marginali, e continuano da esserlo. Vale per l’omosessualità di Michelangelo e di Leonardo, in tempi e luoghi nei quali la sodomia era sì diffusa e in parte tollerata, ma anche un reato punibile con la pena di morte. Vale per la nascita dell’hip hop tra i migranti portoricani e jamaicani nei ghetti di New York, per quella del rock n’ roll tra i bifolchi “white trash” degli Appalachi, del blues nel delta del Mississippi segregazionista. Vale per le fiere dell’anormalità messe in piedi da figure come Andy Wharol o Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, le cui intuizioni di mercato hanno costruito cortocircuiti fantasmagorici ed inediti tra decadenza, marginalità, spettacolarità e creatività. Lo sappiamo guardando alla storia dell’arte e della cultura e lo sappiamo anche intuitivamente: in una condizione “normale” – centrale, privilegiata, senza qualcosa che la muova – la produzione culturale tende ad essere anonima e derivativa, una riproduzione di stilemi, sguardi, sensibilità e regimi estetici che i sono prodotti in altri luoghi e in altri modi.

Si tratta – in altri termini – di un paradosso. Più ci si avvicina al centro della società – ai luoghi del privilegio, del potere, del benessere materiale – e più si da valore all’espressione di autenticità attraverso le pratiche culturali. Molti elementi che contribuiscono a definire questa autenticità si trovano però soprattutto ai margini.

Politiche e piattaforme

E allora? Che ci facciamo con il riconoscimento di questi paradossi? Credo che nell’Italia del 2024 possiamo provare a farci almeno due cose.

La prima è costruire nuovi regimi discorsivi che siano in grado articolare e dare voce a una pluralità di forme di marginalità. Costruire – in altri termini - nuove piattaforme di mutualismo e trasformazione degli assetti di potere tra margini e centri, in un’ottica che potremmo definire di intersezionalità sociospaziale. Quando si parla di intersezionalità, solitamente si fa riferimento alla definizione introdotta dalla giurista statunitense Kimberlé Williams Crenshaw, secondo la quale per comprendere la particolare condizione di svantaggio delle donne nere non si può fare riferimento separatamente alle categorie di etnia e genere ma è necessario, al contrario, prenderle in considerazione in modo congiunto. La lettura intersezionale sta prendendo sempre più piede nei movimenti globali – come in quello transfemminista e quello per la giustizia climatica – perché cerca di evidenziare le vulnerabilità individuali e collettive sotto una molteplicità di punti di vista, e allo stesso tempo promuove nuove modalità di valorizzazione delle differenze esplicitamente orientate alla lotta contro le disuguaglianze. Esistono molti approcci diversi all’intersezionalità, tanti quanti sono i modi di riprodurre e permutare le disuguaglianze. Alla luce dei tre regimi discorsivi passati in rassegna con l’inizio di questo testo, è necessario pensare a una forma di intersezionalità che tenga assieme criticità e potenzialità delle marginalità sociali, urbane e geografiche. L’andamento delle elezioni in tutto l’Occidente ci dimostra che non ci può essere reale progresso in un mondo nel quale le aree centrali delle metropoli e delle grandi città divengono sempre più inclusive mentre le loro periferie e le aree rurali si trasformano in baluardi delle disuguaglianze, quando non della vera e propria reazione. Non si tratta di altro che di adattamento degli schemi multidimensionali di “livelli di differenze” proposti da Helma Lutz. Ci serve davvero tanto, per imparare a pensare e agire in modo sistemico.

La seconda è progettare ed implementare delle politiche culturali che favoriscano programmaticamente la presa di parola di chi sta ai margini, ridefinendo i confini di quello che viene considerato appropriato, auspicabile, finanziabile nelle politiche culturali.

Per farlo è necessario mettere in campo forme di partecipazione attiva nelle quali il coinvolgimento di chi sta ai margini non si riduca a una semplice “interazione” ma che rivolga loro domande puntuali relative a decisioni significative. A seconda dei tempi e dei luoghi questo può avvenire in modo diretto o tramite forme di rappresentanza, ma è cruciale tenere a mente che non può accadere nel deserto delle risorse: se stare ai margini vuol dire essere lontani dai capitali necessari ai percorsi di soggettivazione, è necessario costruire delle politiche che forniscano questi capitali. I soldi – come al solito – sono importanti, ma non si tratta solo di quello. Si tratta anche – e in certi casi soprattutto – di capacitazione ed empowerment collettivo: costruire le competenze diffuse per accedere ai finanziamenti; fornire borse di studio esplicitamente dedicate all’espressione di punti di vista marginali; provvedere all’accompagnamento tecnico, strategico e finanziario.

Per avere senso, questo non può accadere nello spazio sterile di politiche dedicate per gruppi sociali, aree urbane o geografiche marginali, ma deve necessariamente accadere aprendo delle finestre di collaborazione programmatiche e strutturate con le istituzioni culturali riconosciute: musei, teatri, sale concerti, università. Perché ciò accada, è indispensabile aprire dei canali di mediazione culturale biunivoca tra le forme di cultura alta e quella bassa, imparando a costruire e riconoscere la legittimità di forme di interpretazione e curatela alternative.

Non è possibile attuare politiche di questo tipo senza costruire allo stesso tempo momenti periodici di messa in discussione delle mitologie della marginalità che nutrono i mondi della cultura. Fare, in qualche modo, il tagliando al senso di realtà di quei “ceti medi riflessivi” che tendono a ignorare programmaticamente quanto è duro stare lontani dal privilegio.

Bertram Niessen è un ricercatore, progettista, docente, autore e advisor che si occupa di come la cultura trasforma lo stato delle cose. È Presidente, Direttore Scientifico e Responsabile Ricerca e Sviluppo dell'Agenzia per la trasformazione culturale cheFare, di cui è stato tra i fondatori nel 2014 dopo aver ideato nel 2012 l'omonimo premio per progetti di innovazione culturale. Dal 2003 insegna in corsi di laurea, master e scuole dottorali in università e accademie a Milano, Trento, Roma. È stato ricercatore post-doc all’Università di Milano nei progetti EU EDUFASHION e Openwear. Ha conseguito un PhD in Urban European Studies all’Università di Miano-Bicocca. Nel 2001 è stato membro fondatore del collettivo sperimentale di arte elettronica otolab, con il quale ha realizzato centinaia di performance, concerti e installazioni nei principali festival internazionali per le culture digitali.Collabora con testate on line, off line radio.  Negli anni ha contribuito a La Domenica – Il Sole 24 Ore, IL, Nòva, Il Giorno, Artribune,

Doppiozero, Digicult, Rai Radio Live, RSI Radiotelevisione svizzera. La produzione editoriale conta decine di titoli tra curatele di volumi, capitoli in opere collettive, articoli in riviste specializzate e prefazioni. Il suo ultimo libro è Abitare il Vortice. Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (UTET 2023). È membro di diversi consigli culturali, giurie, board, commissioni tecniche e scientifiche per la valutazione di progetti culturali.