Investire in cultura per trasformare la società: ruolo e significato delle fondazioni private
di Carola Carazzone
Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°4, Aprile 2019
Gli anni della crisi hanno portato a una distorta concezione della cultura in Italia. Più che risorsa, più che patrimonio, troppo spesso è ancora vista come lusso, come un qualcosa di decorativo, di ancillare, di cui occuparsi la domenica pomeriggio. Questo, in un paese come il nostro - la nazione al mondo che ha più siti Unesco patrimonio dell’umanità – che soffre di stagnazione economica e tassi di disoccupazione tra i più alti d’Europa, è miopia politica pura: significa svalutare e continuare cecamente a ruotare intorno a bisogni, senza essere capaci di vedere asset fondamentali (asset based community development) e partire da essi per innescare processi di sviluppo umano e sostenibile. La cultura è da sempre contaminazione, ricerca di identità aperte, propensione al dialogo e alla creazione di ponti e finalmente questo ruolo della cultura quale humus straordinario sia per la condivisione dei valori sia per la costruzione di realtà in dialogo, aperte, capaci di comprendere le ragioni dell’altro e di integrarle in sintesi nuove sta emergendo. Si veda a riguardo, per esempio, il lavoro di avanguardia promosso da European Cultural Foundation.
Per quanto riguarda le fondazioni private italiane - fondazioni di famiglia, di impresa, di comunità e altri enti filantropici-, spesso emergenze economiche e sociali di vario tipo hanno catalizzato la loro attenzione e incentrato la loro azione sull’assistenza e i servizi alle persone vulnerabili, andando a colmare le falle di un welfare italiano in grande difficoltà.
Negli anni più recenti però si sono formati esempi fantastici che dimostrano la capacità del patrimonio culturale di costituire una leva fondamentale del benessere della società e della valenza strategica della cultura e delle sue potenzialità uniche di trasformazione individuale e sociale nell’attuale momento storico. In merito all’impatto sulla persona di cui è capace l’investimento sulla cultura basta leggere l’Atlante dell’infanzia a rischio sulle periferie dei bambini e la povertà educativa. In merito all’impatto sociale, ed economico, di cui è capace l’investimento sulla cultura, basta guardare alle ramificazioni del nuovo ecosistema ibrido della «cultura trasformativa» di cui ormai fanno parte migliaia di organizzazioni e decine di migliaia di persone, sia nelle grandi città che nelle zone rurali e nelle aree interne, in cui la cultura diventa straordinaria leva di crescita, di sviluppo economico, di buona occupazione e di riconversione dei territori.
Si tratta di realtà che sfuggono alle distinzioni classiche, muovendosi agilmente tra terzo settore, imprenditoria giovanile, sperimentazione artistica e tecnologica. Tante di loro sono emerse proprio su iniziativa di fondazioni private e di alcuni bandi innovativi da esse promossi: Culturability (di Fondazione Unipolis), Il bene torna comune (di Fondazione CON IL SUD), FUnder35 (di Acri), cheFare (dell’omonima associazione), iC-InnovazioneCulturale (di Fondazione Cariplo), Open E Ora! (di Compagnia di San Paolo).
Le organizzazioni della «cultura trasformativa» sono caratterizzate da: una nuova e diversa consapevolezza della sostenibilità economica della progettualità culturale; l’essere immersi in reti di relazioni trasversali con pubblici dinamici (online ed offline) e stakeholder su livelli molto diversi; un capitale enorme di competenze, dato da biografie professionali che passano spesso per percorsi accademici nazionali ed internazionali; un legame con i territori in cui operano che li porta ad essere attivatori di processi coesione sociale; un ruolo di attivatori nei processi di rigenerazione urbana; una costante attenzione agli impatti, non solo economico, ma anche sociale, culturale, ambientale, civile.
Ora, il punto è che queste organizzazioni della cultura trasformativa hanno le potenzialità per essere attivatori e attori di system change, ma hanno bisogno di finanziamenti per la missione, non per progettini; finanziamenti non solo legati alle attività di un progetto, ma all’organizzazione stessa, al rafforzamento delle sue capacità, anche di cogliere nuove opportunità e collaborare con altre organizzazioni del terzo settore e altri partner diversi.
I finanziamenti di cui hanno bisogno vitale sono di lungo periodo, flessibili, non solo donazioni monetarie a fondo perduto, ma un portfolio di donazioni monetarie e non, come relazioni, connessioni e altri tipi di supporto (per esempio uso di spazi, prestiti, garanzie per l’ottenimento di prestiti).
Da parte delle fondazioni private è necessario un cambio di paradigma, una vera e propria trasformazione del modo di finanziare, di investire, di erogare che necessita di nuove policy e modalità di finanziamento, diverse dai bandi.
Il primo passo che i finanziatori privati dovrebbero fare è spostare la loro attenzione dagli input – e dal controllo su quegli input - ai processi e ai risultati, o meglio all’impatto: outcomes e non solo outputs e selezionare gli enti del terzo settore su cui investire, non certo aprioristicamente (amici degli amici), ma attraverso policy di scouting, dialogo costante, accreditamento e costruzione di relazioni di fiducia basate sulla condivisione della missione e meccanismi di comparazione degli obiettivi strategici. Costruire partnership strategiche su missioni, che scardinino la relazione erogatore- beneficiario di progetto, verso un modello in cui il partner finanziatore e il partner implementatore stanno in una relazione di partnership strategica e non di dipendenza top-down.
Questo nel nostro paese – dove il 99% delle fondazioni private usano ancora le stesse modalità di finanziamento degli enti statali e pubblici - sarebbe un cambio epocale, un cambio di paradigma.
L’unicità del valore delle fondazioni filantropiche infatti sta nella qualità della ricchezza privata che possono mettere a disposizione del bene comune, non certo nella quantità, visto che anche messe tutte insieme non potrebbero mai sostituire i budget pubblici.
La loro unicità sta nel fatto che essendo politicamente e finanziariamente indipendenti, non sono legate ai tempi brevi della politica di oggi che deve fagocitare risultati di breve periodo: le fondazioni filantropiche hanno una enorme libertà strategica e una ampia flessibilità e agilità di azione.
Negli ultimi dieci anni le fondazioni private più importanti del mondo hanno scelto di investire in supporto generale operativo (core support) per i loro partners (in italiano si dice ancora beneficiari) per buona parte dei loro budget: Bill and Melinda Gates, Ford Foundation, OSF- Open Society Foundation, OAK Foundation, Jacobs Foundation. Abbiamo bisogno di fondazioni filantropiche italiane che abbiano, allo stesso tempo, l’umiltà e il coraggio per fare questo passo: l’umiltà di riconoscere nelle organizzazioni dei veri partner strategici e non dei meri beneficiari- ricettori di finanziamenti e il coraggio di rivoltare completamente le dinamiche di potere erogatorebeneficiario dell’attuale sistema incentrato sui bandi e il punto di partenza dal controllo degli input agli outcome, per favorire l’empowerment e la partecipazione attiva, libera e significativa di partner- enti del terzo settore al cambiamento sociale. Questo concretamente significa anche superare l’idea della percentuale dei costi cosiddetti di struttura sui finanziamenti erogati per progetti.
Le fondazioni filantropiche hanno il potere per prendere l’iniziativa e rompere il circolo vizioso della fame delle organizzazioni del terzo settore e il circolo vizioso che le porta in una situazione di debolezza e dipendenza.
Carola Carazzone è segretario generale di Assifero - Associazione italiana delle fondazioni ed enti della filantropia istituzionale e membro del board di Ariadne- European Funders for Social Change and Human rights, DAFNE - Donors and Foundations Networks in Europe e ECFI- European Community Foundations Initiative.