IVA is the new black
Dell’abbassamento delle aliquote Iva applicate sulla filiera artistica se ne parla da moto tempo ma mai, prima di adesso, si è avuta la sensazione che fosse un obiettivo raggiungibile, che i tempi fossero maturi.
Vuoi per le aperture della normativa europea, vuoi per certe dichiarazioni come quelle rilasciate da Vittorio Sgarbi quando era sottosegretario di Sangiuliano prima che venti e bionde se li portassero via, vuoi per una delega fiscale che in realtà lo provvederebbe. Vuoi, anche, per un vento politico programmaticamente ispirato verso la difesa dei mercati nazionali dall’attacco di quelli stranieri.
E invece no. Invece siamo ancora qui a misurare la distanza che ci separa dal resto dell’Europa, Francia e Germania in testa. Siamo ancora qui a vedere come altri abbiano sfruttato le opportunità nate dalla Brexit, abbiano capito che abbassare le aliquote sostenendo un mercato aumenta il gettito e non il contrario, abbiano lavorato per ampliare le fette di torta colorate con la propria bandiera.
Che dire? Incapacità? Malafede? Disinteresse del mondo politico? Di certo il settore è spesso visto come ambiguo, oscuro, più propenso all’evasione che all’inclusione. Però è altrettanto vero che abbassare le aliquote al 5% come proposto anche da Federculture nell’incontro con il ministro Giuli lo scorso dicembre avrebbe, da un lato, il pregio di dare un aiuto fondamentale nella lotta all’evasione mentre, al contrario, questa risulterà sempre più conveniente anche per gli acquirenti e, dall’altro, quello di permettere a un settore che vive in un modo globale di crescere, essere competitivo a livello internazionale, essere attrattivo. E, conseguentemente, fatturare di più. Una operazione win win per gli operatori e per l’erario. E invece siamo ancora a guardare la serie IVA is the new black.