La voce narrante della Fondazione Castiglioni
Intervista a Giovanna Castiglioni
Quando un anno fa è giunta la notizia della disdetta del contratto di locazione per la Fondazione Achille Castiglioni, che ha sede nell’originale studio dei fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni, il mondo della progettazione e della cultura milanese ha reagito con incredulità. È come chiedere al Duomo di spostarsi, ha commentato qualcuno. Parte della popolarità del luogo, oltre naturalmente all’importante storia che racchiude, è dovuta alla passione con cui la figlia Giovanna Castiglioni narra le vicende familiari, intrecciandole a quelle del design italiano del dopoguerra, a spettatori sia milanesi che internazionali. A lei la parola.
Quando è nata la Fondazione e per iniziativa di chi?
Bisogna fare un passo indietro al 2002, quando alla morte di Achille Castiglioni il passaggio di consegna non era definito. Non avendo lasciato testamento al riguardo, mia madre Irma ha pensato a come tenere vivo lo studio e organizzare il lavoro di archivio. Fino al 2006 ci è voluto tempo per trovare un partner come la Triennale, che aiutasse a sostenere anche economicamente e a ragionare sull’apertura al pubblico. Da quel momento abbiamo aperto come studio-museo e poi nel 2011 è nata la Fondazione. In quei sei anni, ci sono stati ulteriori ragionamenti, la partecipazione di Triennale è stata ridefinita e abbiamo cercato altre aziende affinché partecipassero nel board e come sponsor. Così sono diventati soci fondatori Alessi, De Padova, Flos, Zanotta e Brionvega.
Come è andata avanti?
Questo ha permesso a me e mio fratello Carlo di portare avanti le attività; lui come Presidente, io mi occupo delle visite. Mi piace chiamarmi la voce narrante della Fondazione, più che Vicepresidente. L’archivio è mantenuto da Antonella Gornati, storica collaboratrice di mio padre, insieme a Noemi Ceriani.
La sinergia con le aziende ci ha dato possibilità di organizzare ogni anno una mostra in studio, concentrandoci ogni volta su aspetti specifici dell’archivio, studiando, digitalizzando, esponendo talvolta progetti di disegno industriale, altre volte di architettura. È un modo per far tornare i visitatori, o per far sì che ne arrivino di nuovi. Lavoriamo tanto con il passaparola, si creano delle relazioni umane. Perché siamo un po’ una casa, un po’ uno studio di architettura, ma non un museo classico. Qui puoi toccare, provare, non ci sono didascalie, né piedistalli. Non ci sono domande banali. Io stessa sono geologa e ho dovuto studiare per fare questo lavoro, di cui non c’è propriamente una laurea. Uso parole semplici perché il mio approccio al design è quello di una bambina. Non bisogna aver paura dall’errore, bisogna continuare ad allenare la mente e chiedersi il perché delle cose. Mio padre diceva: se non siete curiosi lasciate perdere.
Ci dica di più dello studio
Lo studio in Piazza Castello 27 è stato aperto nel 1962 da Achille e Pier Giacomo Castiglioni da uno studio precedente che era in Porta Nuova. Il terzo fratello Livio, che prima lavorava con Caccia Dominioni, si divide da lui e apre suo studio per conto suo dedicandosi maggiormente al suono e all’illuminotecnica. Achille e Pier Giacomo sin dall’inizio si dedicano all’architettura, agli allestimenti e agli oggetti di disegno industriale.
La scelta dell’indirizzo era del tutto strategica, non rappresentativa come può sembrare ora: a 15 minuti da casa di entrambi i fratelli, non lontano dall’autostrada per recarsi nelle aziende della Brianza.
Dal 1962 lo studio è sempre stato in affitto, Achille non era interessato a comprare. Oggi, però, con la bolla immobiliare, è come una spada di Damocle sulle nostre teste.
Come mai avete scelto la formula della Fondazione?
È una fondazione privata non a scopo di lucro, che abbiamo scelto perché dà la possibilità alle aziende che ci sostengono di avere sgravi fiscali. Inoltre, è una formula istituzionale che ci permette di avere visibilità e di diventare parte di un circuito culturale dedito alla conservazione degli archivi.
Che cosa conserva l’archivio?
Ci sono prototipi, fotografie, disegni tecnici, lastre fotografiche, diapositive, corrispondenza, contratti con le aziende, libri, riviste, modellini in scala, arredamento. Tutto è tutelato dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica della Lombardia.
Che cosa significa per voi valorizzare il patrimonio della Fondazione?
La condivisione di storie, quelle della nostra famiglia, ma in generale relative alla storia del design italiano del Novecento. Un conto è averlo avuto come padre, un conto è studiarlo all’università, e noi cerchiamo di coniugare l’aspetto ex-cattedra all’aspetto umano. Era una persona estremamente precisa, ma anche ironica e scherzosa. Aspiriamo a divulgare un modo di progettare. I progettisti che vengono in Piazza Castello 27 a Milano, dopo la visita guidata, si possono portare via un pezzo di Castiglioni, un’idea per concepire il design industriale in senso veramente democratico.
Anche le riedizioni fanno parte della valorizzazione del nostro patrimonio. È un lavoro che avviene insieme alle aziende: rimettiamo in produzione degli oggetti, cercando di applicare delle logiche che siano culturali più che commerciali. C’è sempre rigore anche nelle riedizioni. Alle aziende lasciamo il rischio imprenditoriale, noi ci occupiamo della parte di valorizzazione culturale.
Quali sono le attività della Fondazione?
Organizziamo le visite guidate dello studio alla mattina su prenotazione e un sabato al mese. Poi, ci sono le conferenze in giro per il mondo. L’anno scorso ho portato le nostre storie a Madrid e Tel Aviv, quest’anno a Budapest e, con grande orgoglio, a Richmond, in California, dove sono stata invitata per uno scambio di esperienze e idee riguardo al nuovissimo museo/archivio Eames Institute. Il nostro è un passato meraviglioso, ma a volte ingombrante, poiché mi sento addosso una grande responsabilità. Ma cerco di prenderla con la leggerezza che mi ha insegnato mio padre, “senza prendersi troppo sul serio”. Se capita di sbagliare, pazienza.
E quali le criticità?
La difficolta più grande è tenere aperto lo studio con le risorse economiche idonee e sufficienti. Siamo in quattro a lavorare, ce la mettiamo tutta. L’aumento dell’affitto è la questione più urgente, se la città di Milano non interviene, ci sposteremo. Finora, le istituzioni che si sono rese disponibili sono la Soprintendenza archivistica e bibliografica della Lombardia che già tutela il fondo archivistico e la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, che sta cercando di trovare il modo per tutelare “il contenitore” dell’archivio.
Progetti futuri?
Se non riuscissimo a mantenere questo spazio, potremmo provare ad aprire la Fondazione da un’altra parte, trovando un luogo idoneo e coerente in cui poter proseguire le attività portate avanti fino ad oggi, per 40 anni da mio padre e altri 20 da noi della famiglia, magari anche in modo più ambizioso in termini di dimensioni.
Se rimarremo in Piazza Castello 27, continueremo con l’allestimento di nuove mostre ad ogni Salone, che illuminano un aspetto diverso della produzione di Castiglioni. Per il prossimo Salone stiamo lavorando ad una mostra sulla ristorazione e faremo un focus specifico sul Ristorante Malatesta, il Ristorante Da Lino Buriassi e la Birreria Splugen Bräu, tutti progetti dei Castiglioni nati a Milano e che oggi non ci sono più.
Giovanna Castiglioni, figlia di Achille Castiglioni, dal 2006 ha messo in un cassetto la laurea in Geologia per gestire la stratificazione dei progetti presenti nello studio del padre, aperto al pubblico come Museo e Fondazione. Coordina le attività di archiviazione del patrimonio culturale della Fondazione e divulga il “metodo Castiglioni” rivolgendosi a un pubblico eterogeneo per età, cultura e interessi, proveniente da ogni parte del mondo. È curatrice, insieme a Chiara Alessi e Domitilla Dardi, del progetto “100x100 Achille”, una raccolta di più di 100 oggetti anonimi regalati nel 2018 da più di 100 designer di livello internazionale. Tiene conferenze e workshop in giro per il mondo puntando sull’interazione dinamica con il pubblico, al quale chiede sempre di fare ginnastica mentale. E… non sa ancora cosa farà da grande!