L'archivio di un visionario
Ignazia Favata ricorda Joe Colombo
L’archivio Joe Colombo si trova all’interno dello studio di architettura tuttora attivo di Ignazia Favata, sua storica collaboratrice.
L’archivio è nato fin da subito quando sono andata a lavorare da Joe Colombo. L’ho conosciuto alla Triennale del 1968. Ho lavorato lì per un breve periodo dopo la laurea. Avevo ricevuto diverse offerte da vari architetti noti milanesi, ma ho scelto lui perché era un giovane in fase ascendente.
Così sono entrata nello studio e lì c’era un caos ordinato, ma non si trovava niente, per cui mi si sono poste due questioni: trovare le cose, e capire che cosa fosse il design. Avevo fatto solo un breve corso in arredo di interni, ma non sapevo che cosa fosse un oggetto di design. Conoscevo dei prodotti firmati dai nostri architetti (allora si usava poco la parola design), ma non come si disegnavano questi arredi, perché io ero abituata al disegno architettonico. Nel design, bisognava disegnare spesso in scala 1:1 e conoscere spessori e materiali.
Allora ho iniziato a rimanere in studio oltre l’orario di lavoro e aprire tutti i disegni arrotolati nei cestoni per dare un ordine. Mettevo titoli e date e preparavo una sorta di archivio, raggruppandoli. Chiedevo a Joe di fermarsi e dirmi man mano quando mancava una data, o il committente. Ho creato uno schema con delle caselle in cui inserivo le notizie, ma appena ho avuto la possibilità, ho subito iniziato a digitalizzare le informazioni. Dallo schedario sono passata prima alla macchina da scrivere normale e poi a quella della IBM, quindi, potevo cancellare e correggere, ho suddiviso per categorie, attribuendo un numero di codice progressivo. Piano piano è nato un archivio ordinato e quando è arrivato il computer, l’ho subito digitalizzato, ma Joe già non c’era più.
Il primo a chiedere di dare comunicazione di questo archivio è stato il Casva (tra l’altro io ero una dei pochi, tra i vari archivi, ad aver già digitalizzato quasi tutto). Altro materiale, come fotografie, corrispondenza, contratti, invece, erano a casa di Joe o di sua madre. Così come i rapporti riservati con clienti, quelli non mi sono rimasti. Casa e ufficio erano attigui e collegati da una porta, perché erano stati divisi da un unico appartamento all’ultimo piano. Purtroppo, tutti gli arredi sono andati perduti in seguito ad un incendio del deposito.
Dopo la morte di Joe, noi siamo rimasti in quel luogo ancora un anno, c’era lavoro ancora per un paio anni. Con Joe io mi occupavo del dimensionamento dei prodotti, lui produceva schizzi già bellissimi, aveva in testa le misure, a volte andavano solo ingranditi, e poi facevamo i cambiamenti che voleva lui. Erano sempre disegni un po’ pasticciati, poi li passavamo ai disegnatori e diventavano esecutivi
Il mio passaggio era intermedio affinché lui capisse bene e potesse correggere e poi io organizzavo il lavoro in studio (eravamo in sei).
Alla morte di Joe, ho potuto completare i progetti già schizzati, per esempio, per la partecipazione alla mostra al Moma e per il servizio di bordo di piatti e posate per l’Alitalia, perché erano progetti giunti esattamente alla fase del mio lavoro, per poi passare alla produzione. In seguito, Gianni, artista e fratello di Joe, non era interessato a portare avanti lo studio (lo stesso Joe aveva iniziato come pittore all’interno del movimento nucleare). Quindi, l’ho portato avanti io; la moglie Elda era la destinataria della casa-ufficio, io ho fatto un contratto con lei, occupandomi dell’ufficio e dividendo con lei le royalties, per cui lei non doveva mantenere lo studio, mentre io ero libera di muovermi liberamente con il lavoro. I collaboratori, mano mano, hanno preso le loro strade, quindi, sono rimasta con la segretaria e piano piano ho avviato il mio studio di ristrutturazioni, mantenendo l’archivio.
In seguito, mi sono trasferita nell’attuale sede in Via Muratori 29, in un edificio molto bello della stessa epoca di quello in Via Argelati. Prima l’architetto era Albini, ora è Passarelli. È in pieno stile Gropius. Per trovarlo, ho girato mezza Milano. Era il periodo in cui mi sono sposata, c’è voluto tempo per trovare un edificio che piacesse a entrambi. Qui abbiamo trovato casa, e poi ho preso anche l’ufficio a fianco ma, essendo due unità diverse, non le ho mai collegate.
L’archivio di Joe oggi ha sede lì. Il contenuto è stato indicato alla Soprintendenza ai Beni Archivistici, che voleva vincolarlo, ma io non avevo ancora finito il lavoro di digitalizzazione. Questo è l’obiettivo dei prossimi anni. Come dicevo, l’archivio include schizzi, disegni tecnici su carta da lucido, fotografie spesso realizzate dai fotografi importanti dell’epoca. Ci sono anche fotografie personali, perché Joe era un appassionato di fotografia, anche se non era così bravo – almeno così gli diceva Oliviero Toscani, che aveva lo studio di fronte a noi in Via Argelati; allora lavorava per Vogue, veniva da noi, si sedeva in poltrona, a volte prendeva degli oggetti utili per i suoi servizi e, poi, ce li riportava. Comunque, Joe aveva delle belle macchine fotografiche di valore con cui si dilettava. Aveva fatto un documentario di sci, che era un’altra sua passione. Quando partiva per la montagna, ci riposavamo tutti, altrimenti io spesso dovevo lavorare e accompagnarlo anche il sabato. È stato un periodo di grande lavoro per me, ma mi è servito tantissimo. Lo accompagnavo alle fiere, vedevo gli allestimenti. È stato un lavoro molto intenso, dal quale ho imparato moltissimo.
Tornando al documentario, si trattava di un manuale di come si scia, con tanto di libretto in cui lui descriveva le posizioni, corredandole di schizzi a mano.
L’approdo al design, infatti, non è stato immediato. Ha provato a fare l’architetto con un socio, solo che lui era un fulmine, mentre l’altro era posato e tranquillo, così diceva Bernini che li aveva presentati. Hanno fatto dei concorsi, ma poi correvano a due velocità diverse.
Joe ha fatto anche arredamenti di alberghi in montagna, appunto perché andava a sciare, per cui ha convinto un albergatore ad inserire un modulo a torre bellissimo in mezzo alla sala. Tutto il resto era orribile, ma poi c’era il mobile fatto da lui che già mostrava il suo genio. Di questo non se ne sa più niente.
In archivio ci sono i suoi libri, le riviste con le sue pubblicazioni. Perché Gio Ponti è stato un suo sponsor. Anche Ponti aveva fatto di tutto ed era iper-prolifico; Joe gli portava tutto quello che faceva o voleva fare, e Ponti lo valorizzava tantissimo. Tutto quello che Joe gli dava, lui lo pubblicava: mostre, allestimenti, arredi, prodotti ed hanno avuto un buonissimo rapporto.
C’è anche un archivio di prodotti, che in parte ho raccolto dopo la sua morte. Prototipi pochi. Per lui quello che è passato è passato, non teneva la documentazione. Gli schizzi sì, perché li riponeva in una scatola. Disegnava su qualunque cosa: il retro dei cataloghi, sui muri in cantiere… quando faceva un progetto disegnava tutto quello che gli veniva in mente. Nella prima fase della professione cercava una forma, poi ce l’aveva così ben chiara in mente che progettava il prodotto finito. Era difficile tenere testa a tutto quello che progettava; una volta gli ho detto che non si riusciva, lui non ha fatto una piega, si è fatto portare un piccolo tavolo da disegno e ha disegnato lui. Mi ha dimostrato che si poteva fare. Non ho mai più detto che non potevamo. D’altro canto, io non discutevo davanti a un maestro del genere.
A volte capitava che avesse bisogno di disegni mentre era all’estero, allora gli sviluppavo alcuni disegni, poi li portavo in aeroporto a Linate e li consegnavo alla hostess al check in. Ora è inimmaginabile. Oppure, li mandavamo in treno. Per i giornalisti c’era il fuori sacco davanti al treno, in cui i giornalisti mettevano gli articoli o i materiali più urgenti, e anche noi avevamo il permesso di utilizzarlo per mandarlo ai clienti, o alla pubblicazione. Poi è arrivato il fax, ricordo i primi piccoli disegni che abbiamo trasmesso, l’apparecchio sembrava un frigorifero… ma Joe allora non c’era già più. Era un altro modo di lavorare, oggi è cambiata la velocità, ogni volta che accendo il computer, c’è un update nuovo.
Joe era veramente un innovatore. Nel gruppo dei maestri, era il più giovane, per cui era visto un po’ come un intruso. Era talmente produttivo e fuori dal coro che le sue proposte lasciavano sempre un po’ sconcertati certi vecchi tradizionalisti. Lui che non proveniva da una formazione umanistica, ma artistica, dava valore all’aspetto tecnico, quello era chiaro, ma pensavano avesse velleità intellettuali. Il mio scopo è posizionarlo nella storia del design, costruire la base ordinata su cui venivano sviluppate le idee, idee molto avanzate, a volte un po’ dirompenti, come il letto nel soggiorno – allora non esisteva che la camera da letto potesse essere in vista, In casa sua non c’erano le sedie ma poltrone, era tutto strano. Io che dovevo un po’ partecipare a queste serate mondane lo notavo, per gli altri era come entrare in un film, andare a teatro. Oggi è tutto normale. Il fatto era che lui realizzava idee veramente vivibili, nonostante l’aspetto di astrazione. In genere nella progettazione hai un’idea stravagante che poi viene trasformata in qualcosa di reale e concreto. Invece, lui partiva da un’idea avveniristica per portarla nella vita reale così com’era, a contatto con le persone.
Ecco il mio scopo è lasciare nella storia questo suo approccio basato sull’idea. Per questo, quando mi hanno scritto i musei, ho sempre fornito tutta la documentazione e i materiali; mi interessava che entrasse nei musei e nelle pubblicazioni in cui le date sono riferimenti certi.
Quando sono entrata nel suo studio, Joe non aveva neanche 40 anni, aveva lavorato cinque o sei anni prima, poi altri tre anni e mezzo con me. In questo periodo c’è stata una grande accelerata: tanti clienti, tanto successo internazionale, soprattutto negli Stati Uniti, perché c’era stata una mostra in occasione della quale i giornalisti hanno scritto di lui cose bellissime. Sui titoli dei giornali si leggeva “L’America ha scoperto Colombo”, alludendo alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo e invertendo l'ordine. I suoi oggetti furono apprezzati per l’originalità e anche per l’uso delle materie plastiche e delle tecnologie costruttive più avanzate. Gli altri erano piu tradizionalisti, più legati al design d’ispirazione nordica. Lui ha capito subito l’innovazione tecnica e come applicare i nuovi modelli tecnologici, e questo perché aveva lavorato per l’azienda paterna di cavi elettrici quando suo padre si era ammalato di cuore. Lì aveva imparato come si gestisce un’azienda, come si realizzano le parti tecniche. Andava in Germania, dove erano molto più avanti e avevano già tutta la componentistica; tornava con i cataloghi in tedesco, noi non capivamo la lingua, ma i disegni sì. Il suo percorso è stato parallelo allo sviluppo industriale dal suo punto di vista estetico. Già nella sua precedente produzione artistica di pitture e sculture mostrava questa carica innovativa con fori e diramazioni. Enrico Baj ha sempre detto che è stata una grande perdita per l’arte quando lui, consigliato da Munari, ha iniziato il suo percorso nel design. La pittura è finita, gli ha detto Munari, e lui ci ha creduto.
Ora c’è l’idea di fare una fondazione. Il momento è maturo perché ci sono tanti produttori, quindi ci possono seguire in questo percorso. La legge è cambiata a nostro favore, perché si può utilizzare anche una parte commerciale.
Il futuro è lì, io intendo smettere il lavoro di ristrutturazione perché è diventato molto faticoso in cantiere; ci sono molti rischi, incidenti, quindi, per via dell’età e in coincidenza con il cambiamento del settore, mi dedicherò maggiormente alla valorizzazione dell’archivio e a far realizzare progetti ora nel cassetto.
Ignazia Favata Laureata al Politecnico di Milano, assistente di Joe Colombo dal 1968, ha diretto lo Studio Joe Colombo di Milano dal 1971, occupandosi di nuovi prodotti di design industriale e dell'attualizzazione di quelli in produzione. Sviluppa le attività museali ed editoriali dello Studio. Docente per 20 anni al Politecnico di Milano.