di Melissa Tondi

Capita a volte che gli avvenimenti più interessanti, quando si tenta di ricostruire la storia delle istituzioni benefiche verso “coloro a cui non è riconosciuta pienezza di diritti” siano ormai da rintracciare, non solo nel testo, ma nelle postille collocate ai margini di una pagina. Così la sociologa Simonetta Ulivieri definisce quel “stare al lato rispetto al centro” che caratterizza i marginali ovvero «quelli che non sono nel testo, ma che stanno ai margini della pagina, anzi costituiscono, a fronte della pagina principale, codificata, una pagina secondaria, disordinata, che segue criteri diversi e divergenti»[1]. Anche lo scrittore Luciano Gallino indaga il significato di marginalità, in termini di cittadinanza negata, come «situazione di chi occupa una posizione che si colloca nei punti più esterni e lontani di un sistema sociale, ovvero una posizione posta al di fuori di un dato sistema di riferimento ma in contatto con esso, restando escluso dalla partecipazione alle decisioni che governano il sistema a diversi livelli, e dal godimento delle risorse, delle garanzie, dei privilegi che il sistema assicura invece alla maggior parte dei suoi membri, pur avendo analogo diritto formale eo sostanziale»[2]. La marginalità è quindi la condizione di chi occupa un luogo periferico rispetto a un altro luogo che viene individuato come il centro dello scenario su cui si sta ragionando[3]. È una caratteristica di un gruppo sociale che per nascita o volontà altrui non può giovarsi di condizioni positive di sviluppo mentre l’emarginazione è il processo di messa ai margini di gruppi sociali per volere o interesse dei gruppi dominanti.

L’abolizione in Italia degli istituti specializzati avvenuta negli anni Settanta, in nome di principi quali integrazione e inclusione, ha contribuito all’inserimento nelle classi comuni di allievi con disabilità spesso molto diverse fra loro, rispetto ai quali le competenze e le risorse a disposizione appaiono, il più delle volte, largamente insufficienti. Detto ciò, il ritorno alle classi differenziate metterebbe a rischio il cammino intrapreso verso l’inclusione e il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità, rendendoli nuovamente invisibili, ancora marginali.

Il dibattito sull’educabilità delle persone svantaggiate e della loro capacità di apprendimento ha più di tre secoli al suo attivo ed è ormai diventato patrimonio comune della collettività, anche se a volte minato dalle mode del momento. Le possibilità di un individuo in situazione di marginalità di poter condurre in autonomia e libertà la propria vita sono enormemente aumentate rispetto al passato. Sarebbe comunque errato sottovalutare le difficoltà e gli ostacoli con cui tali persone si trovano quotidianamente ad affrontare nondimeno bisogna evitare di cadere nella retorica della spettacolarizzazione della disabilità, alimentando quella cultura fatta di pietismo e compassione che ostacola l’inclusione e, perfino, discrimina.

Il cantante Ermal Meta dal palco del concertone del 1° maggio a Roma, parlando di inclusione, interviene dando a voce al suo vissuto di straniero: «Il mio primo mese nella scuola italiana è stato veramente difficile. Non capivo niente di quello che si diceva in classe. Non capivo i compagni, non capivo i professori. […] Ricordo che i professori mi parlavano più lentamente e mi davano il tempo di appuntarmi tutto ciò che non capivo su dei quaderni. Ecco, penso che sia stato questo, all’inizio, il significato della parola istruzione per me. Avere la possibilità di vivere una scuola inclusiva, quando il termine inclusivo nemmeno si utilizzava. La parola istruzione è fortemente legata ad un’altra parola: uguaglianza, che significa avere tutti gli stessi diritti e le stesse opportunità. A volte, però, pur nell’uguaglianza siamo diversi e qualcuno può partire svantaggiato nel proprio cammino. Ed è così che ci rendiamo conto che la parola uguaglianza, da sola, non è sufficiente. È a questo punto che ci viene in soccorso un’altra bellissima parola: equità. Mentre l’uguaglianza ci mette tutti sullo stesso piano, l’equità si muove dalla diversità di ciascuno, per offrirgli ciò di cui ha bisogno per realizzare sé stesso, perché tutti devono poter guardare l’orizzonte del proprio futuro in egual modo. Equità è un bambino che non è costretto a studiare in un’altra classe a causa della sua disabilità. Equità è valutare il rendimento dei ragazzi in base al loro impegno, ognuno secondo le proprie possibilità. Equità è garantire a tutti, ma proprio a tutti, non gli stessi strumenti, ma gli strumenti di cui ciascuno ha bisogno. In fin dei conti, non si può valutare un pesce dalla sua capacità di arrampicarsi su un albero. L’equità nell’istruzione è essenziale per garantire un futuro in cui ogni individuo possa realizzare sé stesso. Dobbiamo eliminare i pregiudizi e le barriere che limitano l’inclusione, affinché nessuno venga lasciato indietro. Perché il futuro è una promessa che dev’essere mantenuta per tutti»[4].

L’equità e l’uguaglianza delle opportunità e delle possibilità a partire dal riconoscimento delle differenze individuali sono i valori portati avanti dalla Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano fin dalla sua nascita, prima dei moti risorgimentali, nel solco del Regno Lombardo Veneto allora dipendente dall’Austria asburgica. La sua istituzione rappresentò un cambio di mentalità epocale per il tempo: i non vedenti, che fino a quel momento erano emarginati, degli invisibili agli occhi della società, da quel 10 luglio del 1840 ebbero “un luogo dedicato a loro”, dove si provvedeva non solo al ricovero e alla cura, ma anche alla formazione e all’educazione, allo scopo di promuoverne l’inserimento sociale secondo il principio illuministico dell’“educabilità dei ciechi”. Ma come si impara a includere, a fare i conti con le differenze, proprie e altrui? Come si possono generare nuovi apprendimenti e nuove forme di convivenza e di giustizia sociale? A tutte queste domande, la Fondazione cercò di fornire delle iniziali risposte attraverso i principali protagonisti della vita educativa, gli educatori e i rettori dell’Istituto.

Tra tante figure carismatiche, colpisce quella del religioso Luigi Vitali (1876-1914), rettore dal 1876, che si impegnò in prima persona nello studio dei metodi di insegnamento per ciechi e nella progettazione di strumenti didattici come l’inchiostro in rilievo che porta il suo nome. Un inchiostro che, una volta asciutto, lasciava il segno, il segno in rilievo, quello che fa percepire il contorno di una facciata, di una figura geometrica o le note musicali su un pentagramma. Una vita, quella del monsignor Vitali, fatta di passione e di dedizione: viaggiò all’estero per conoscere i metodi d’insegnamento seguiti negli omologhi istituti e nel 1878 lo si può immaginare aggirarsi fra gli stand dell’Esposizione Universale di Parigi, “dove riuscì a tessere una rete di relazioni indispensabili ad attestare l’ente come centro di eccellenza, capace a sua volta di proporsi come modello di riferimento”,  mettendo in risalto “le abilità degli alunni non vedenti espresse nell’interpretazione dei pezzi musicali e corali, nella lettura e scrittura in braille, nella declamazione di brani narrativi e poetici, nell’esecuzione di lavori artigianali (cuscini, cestini, sedie impagliate, ricami etc.)” [5].

Sarà lui ad indirizzare la scelta di costruire l’attuale sede, in Via Vivaio 7, a Milano, all’interno delle mura spagnole in modo da rendere visibile l’invisibile, consentendo un maggiore dialogo con la cittadinanza, quella aristocratica e borghese che si riuniva ogni giovedì per le esibizioni degli allievi presso il Salone da Concerti, dando vita a un circolo virtuoso di donazioni a sostegno dell’attività dell’ente.

Non c’è casualità negli oggetti che si trovano all’interno dell’Istituto in quanto essi raccontano l’evoluzione culturale che ha permesso ai non vedenti di accedere alla conoscenza e di diventare protagonisti del sapere. Tali oggetti fanno parte della raccolta museale Museo Louis Braille, realtà riconosciuta da Regione Lombardia con D.G.R. 30 dicembre 2009 - n. 8/10947, la quale espone un patrimonio eterogeneo di opere d’arte, oggetti liturgici, carte storiche e strumenti musicali, ancora oggi perfettamente funzionanti.

Cuore della raccolta sono gli oltre duecento dipinti che ritraggono i benefattori dell’Istituto, ai quali si aggiungono tele di vario soggetto che vanno dal Seicento alla fine del Novecento, sculture e mobilio di pregio provenienti dai lasciti testamentari e una sezione didattica dedicata ai sussidi, strumenti e materiali didattici che rappresentano un unicum rispetto a tutti gli altri Istituti per ciechi ancora esistenti.

L’Istituto accolse le innovazioni europee nel campo della tiflopedagogia (dal greco tiflos – cieco, lo studio della pedagogia dedicata alle persone con disabilità visiva), tanto che, nell’Italia del XIX secolo, fu l’Ente con maggior tiratura di libri stampati a rilievo, dimostrandosi di essere all’avanguardia nella ricerca di mezzi meccanici nuovi per l’istruzione. A tal riguardo, il fondatore dell’Istituto, il ragioniere Michele Barozzi, già direttore presso la Pia Casa d’Industria e Ricovero di san Marco, cercò di superare con successive modifiche i limiti della tavoletta per la scrittura comune a mano fino a trasformarla in una macchina da scrivere che fu premiata nel 1851 dal Giurì dell'Esposizione di Londra con medaglia di II Classe, rendendo possibile una celere comunicazione scritta tra il cieco e il vedente. Uno scambio di conoscenze, di esperienze e di aspirazioni personali che corrono lungo un margine posto in rilievo, seguendo le linee di contorno delle lettere dell’alfabeto latino.

Far scorrere il polpastrello delle dita lungo il margine di una lettera, sebbene fosse l’unico modo “per farsi vedere al mondo” e di comunicare con esso, risultava estremamente difficoltoso. Fu l’educatore francese Valentin Haüy ad intuire che il tatto non possedeva la stessa capacità di analisi del dettaglio che ha la vista e per questo motivo aveva tentato la semplificazione della scrittura corsiva, mediante l’eliminazione progressiva delle linee intermedie, degli ornamenti alle lettere, di tutte le parte accessorie della forma primitiva della lettera stessa. Nel solco di questo filone di ricerca, allo scopo di perfezionare la percezione tattile, il non vedente francese Pierre Victor François Foucault (1797-1871) ideò una macchinetta per la scrittura in rilievo costituita non più da linee ma da puntini contigui che seguissero il contorno mentre l’inglese William Moon (1818-1894), diventato cieco all’età di ventuno anni, mise a punto nel 1845 un sistema in rilievo originale, quasi una scrittura stenografica, che prevedeva una semplificazione dell’alfabeto latino.

Arriviamo quindi al 1863, quando Antonio Ascenso, un allievo “forestiero” dell’Istituto dei Ciechi di Milano che aveva frequentato l’Istituto dei Ciechi di Marsiglia, fu in grado di leggere un plico di lettere provenienti dalla Francia scritte in Braille, codice ideato dal cieco francese Louis Braille, non ancora diffuso[6]. Un’invenzione che si è rivelata quanto di più semplice e geniale potesse essere concepito per dare ai ciechi la possibilità di leggere e di scrivere. La forma delle lettere, infatti, è tale da essere compresa nello spazio di percezione simultanea del polpastrello del dito indice, poiché per la composizione delle lettere stesse viene sfruttato un rettangolo di sei millimetri di altezza per tre di larghezza, posto in verticale. Nel rettangolo concorrono sei punti disposti in tre file di due punti ciascuna. La variazione delle composizioni possibili nei sei punti dà luogo alla formazione di ben sessantaquattro segni, tali da soddisfare ogni esigenza tipografica. Per la scrittura a mano, era sufficiente disporre di un’apposita tavoletta munita di un regolo mobile e di un punteruolo che creasse su carta un punto rialzato, muovendosi da destra a sinistra in modo che, girando il foglio, si potesse leggere normalmente da sinistra a destra.

Braille rappresentò il punto d’arrivo di una riflessione iniziata verso la seconda metà del Settecento sull’importanza della comunicazione del sapere fra i vedenti e i ciechi, e per quest’ultimo, un modo di manifestare il suo essere nel mondo alla pari di ogni altro uomo; l’inizio della vera e grande rivoluzione culturale per i ciechi, poiché permise loro l’accesso ai testi e alla scrittura in maniera diretta e autonoma.

Attraverso la scrittura degli spartiti musicali sia per organo che per pianoforte, la musica divenne strumento di riscatto sociale e grazie a ciò molti ciechi raggiunsero vette molto alte in campo artistico diventando concertisti di indiscussa fama. Vite vissute nella loro pienezza, rese tali grazie alle conoscenze messe a frutto dall’Istituto che seppe nutrirli, scommettendo sulle marginalità, consapevole che spesso è proprio a partire dai margini che prende forma una vita.

Melissa Tondi è una professionista museale specializzata in arte dall’Ottocento fino al Novecento. È socia Icom Italia dal 2007 ed è iscritta come storico dell’arte in II Fascia all’Elenco Nazionale dei Professionisti Museali. Dal 2015 sì è occupata di numerosi progetti di accessibilità museale per non vedenti tra cui Guarda! Vedo con le mani per la Fondazione Arnaldo Pomodoro, VIBE Voyage Inside a Blind Experience (Europa Creativa 2017), Per altri occhi con le Gallerie d’Italia, Piazza Scala – Milano e Un'avventura conoscitiva. Progetto per la fruizione delle opere di Antonio Scaccabarozzi e BEAM up (Europa Creativa 2020). Attualmente si occupa della raccolta museale della Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano ONLUS. Ha pubblicato diversi saggi per cataloghi e mostre d’arte ed articoli su riviste quali Corriere dei Ciechi, Cultura è arte e per la rivista digitale LuceMagazine.it nonché numerose relazioni a convegni e seminari didattici scientifici di ambito universitario.

L’articolo vuole essere un punto di partenza, non esaustivo, dell’evoluzione dei metodi di scrittura e di lettura come strumento che permise l’emancipazione dei non vedenti, un percorso che si snoda lungo un margine in rilievo, percettibile al tatto, che passando dal tratto continuo a dei puntini fu determinante per la crescita culturale dei non vedenti.


[1] S. Ulivieri, L’educazione e i marginali. Storia, teorie, luoghi e tipologie dell’emarginazione, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 199, p. IX.

[2] L. Gallino, Marginalità in Dizionario di sociologia, Torino 1993, pp. 405-406.

[3] F. Leoni,T. Tuppini, (2020, 13 novembre) Marginalità in M. Milana & P. Perillo (Cur.) Progetto RE-SERVES: Costrutti chiave.

[4] Monologo del cantante Ermal Meta pubblicato su “La Repubblica” del 2 maggio 2024

[5] E. Panzeri, I rettori dell’Istituto, tra operosità e fede in Il cammino dei ciechi nella città di Ambrogio. Diocesi ambrosiana e Istituto dei ciechi, un’alleanza virtuosa per il bene di chi non vede, Milano, giugno 2024, pp.85-86.

[6] Non dobbiamo dimenticarci che l’Istituto fu il primo a adottare in Italia il codice Braille nel 1864 grazie al ragazzetto di nome Antonio Ascenso che lesse quelle prime lettere allora incomprensibili.