Professioni tra cultura e politica: un ruolo propositivo
di Massimo Miani
Pubblicato in ÆS Arts+Economics n°3, Gennaio 2019
L’economia della cultura definisce il suo ambito di interesse in modo ristretto e si concentra sul «settore culturale» in senso proprio distinto dagli altri settori di attività economica. E’ possibile delineare in due modi il settore culturale: la prima definizione è quella di «settore culturale in senso stretto». Esso comprende il patrimonio culturale (tutela, conservazione, restauro, valorizzazione, gestione), le biblioteche, gli archivi, lo spettacolo dal vivo (teatro, musica, opera, danza), la produzione e distribuzione di arte contemporanea (nelle arti visive, sceniche, musicali, letterarie, architettoniche, ecc.). La seconda definizione è quella di «settore culturale in senso ampio». Essa comprende, accanto alle attività già citate, le «industrie culturali»: industria editoriale, dell’informazione, cinematografica, discografica. Oltre questi limiti è importante sottolineare la crescente importanza, per l’intero settore culturale, delle industrie delle comunicazioni e dell’audiovisivo, le quali da un lato offrono nuove reti di distribuzione per prodotti culturali, e dall’altro veicolano verso il settore culturale una rilevante domanda di fornitura di beni e servizi. I beni e le attività culturali costituiscono una quota importante e crescente dell’economia nazionale e i profondi interventi apportati al settore negli ultimi anni sono il segno di un’aumentata sensibilità sull’argomento. Gli investimenti in cultura alimentano circoli virtuosi di profonda crescita non solo sociale ma anche economica. Le agevolazioni fiscali, dall’art bonus al tax credit cinematografico, sono stati un ulteriore stimolo nonché un prezioso strumento al mecenatismo in ogni sua possibile declinazione e all’impiego di capitali.
Il ruolo dei commercialisti e dei professionisti in genere, al centro di quell’incrocio tra sapere e fare, risulta fondamentale in quello che è e sempre più sarà un settore trainante del nostro Paese: commercialisti, avvocati e notai non possono non testimoniare un impegno dei propri iscritti destinato a essere sempre più marcato e incisivo. Il rapporto tra economia e cultura è quello di una strana coppia da cui può nascere il meglio o il peggio a seconda che l’accento sia posto sul messaggio che si cerca di trasmettere o sulla pretesa di ritorni economici immediati e consistenti. Economia e cultura che assieme racchiudono tutto ciò che è umano, con pregi e difetti, come spirito e materia. Perché ognuno di noi è la cultura che rappresentiamo, cultura che si muove grazie all’economia. Economia che, a sua volta, può assumere carattere virtuoso solo se sostenuta da una forte cultura.
La cultura è un bene diverso dagli altri. Ha aspetti fortemente immateriali e assolutamente personali. È fatta di memoria e di passione. È, per propria natura, in perenne mutamento. L’economia che la sostiene e che ne è a sua volta alimentata non può non considerare questo aspetto così peculiare. Non può pensare allo stesso modo se si parli di penne o di libri.
Negli anni abbiamo assistito a una serie importante di fenomeni:
• un progressivo drenaggio dei finanziamenti pubblici per la cultura (anche se, occorre dirlo, negli ultimi tempi si è assistito a un significativo cambio di rotta)
• una crescente partecipazione popolare, la sharing economy, che ha trovato applicazione anche nel settore culturale
• il frequente abbandono della ricerca della massimizzazione dei profitti quale unico obbiettivo delle imprese. Olivetti disse che la fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti, deve distribuire ricchezza, cultura, servizi e democrazia e oggi, dopo cinquant’anni, possiamo finalmente osservare il crescente interesse delle imprese al tema della felicità e alla sua relazione con il reddito, che ha portato alla loro applicazione alla responsabilità sociale, all’eticità dei bilanci e dei comportamenti
• il cambiamento della scala dei valori, quindi. Il senso profondo della sostenibilità che ha condotto, ad esempio, alla nascita di fondazioni private di livello internazionale o al capillare lavoro del mecenatismo privato a sostegno alle attività culturali.
Come la cultura ha la necessità di ricercare costantemente nuovi riferimenti, così l’economia deve ricercare i propri per restare al passo con la consapevolezza dell’importanza sia sociale che materiale della cultura. Senza cultura non c’è progresso e il conseguente pensiero unico è un fattore di impoverimento, esclusione e disuguaglianza.
Il Presidente della Repubblica ha scritto che la cultura è il nostro sguardo verso il domani. Senza cultura saremmo dominati dal presente, dal contingente. E saremmo meno liberi. Come società anche molto meno competitivi.
La cultura ha quindi bisogno di attenzioni e cure costanti e non può prescindere dalle professioni come queste non possono prescindere dalla cultura in cui possono trovare opportunità e rilievo. Perché le professioni sono fatte di persone e delle loro storie, di idee basate sull’esperienza, di ragione e fantasia, di conoscenze in movimento. Di cultura, appunto.
In questo panorama è nata la Associazione Economisti e Giuristi Insieme e, al suo interno, il gruppo di lavoro dedicato a Arte e Cultura e con un duplice importante intento.
Innanzitutto promuovere la cultura della cultura tra i colleghi perché rimaniamo convinti che sia la cultura a dare un senso a tutti noi e al nostro lavoro. Che conoscerne le regole, anche quelle economiche e legali, sia importante così come aiutare a operare con competenza e tranquillità in un settore, complesso, articolato e ampio, sia un’opportunità che sarebbe incongruo non cogliere.
Il secondo e ancor più profondo impegno, poi, è di carattere sociale, un contributo reale verso un Paese migliore.
Il nostro sistema produttivo culturale e creativo, secondo i dati dell’ultimo rapporto Symbola fattura 92 miliardi di euro, pari al 6% del PIL e offre lavoro a un milione e mezzo di persone. Ogni euro prodotto in cultura ne genera un altro 1,8 (e altri posti di lavoro) per arrivare a 255,5 miliardi prodotti dall’intera filiera pari al 16,6% del valore aggiunto nazionale, col turismo come primo beneficiario di questo effetto volano. E in un Paese in cui l’industria non può spesso reggere la concorrenza di Paesi più flessibili, in cui la disoccupazione (giovanile e non) fatica a rientrare entro parametri fisiologici, in cui le risorse naturali non abbondano e dove la struttura geografica non aiuta, questa capacità di produrre ricchezza, economica e immateriale, non dovrebbe esser cosa di poco conto.
Il ruolo dei professionisti, così, assume una rilevanza politica. La concentrazione di conoscenze economiche, legali, finanziarie e strategiche, la capacità di pensiero laterale e, contemporaneamente, di prospettiva di cui siamo capaci ci rendono naturali attori in ogni settore produttivo, ci pongono nella posizione dell’osservatorio migliore da cui avere una più che necessaria visione d’insieme. In un Paese come il nostro in cui esiste sovrabbondanza di eredità culturali, di progetti attuabili in questo settore, di sensibilità e interesse i nostri Ordini devono impegnarsi in primo piano a costruire un sistema culturale moderno, efficiente e trasparente con proposte concrete da portare al vaglio della Politica.
Il ruolo dei professionisti deve partire dalla fotografia ragionata della cultura nel nostro Paese per descriverne l’andamento dei consumi, le tendenze della domanda e dell’offerta al fine di elaborare politiche e strategie risolutive così come per elaborare soluzioni per rimuovere i troppi ostacoli e le troppe inefficienze che frenano ancora il completo sviluppo del settore.
Massimo Miani è Presidente del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili