di Marco Morganti

All’inaugurazione dell’anno accademico corrente in Bicocca i riflettori erano puntati sulla lectio magistralis di Carlos Moreno. Avevo letto e discusso della “Città di 15 minuti”, l’idea che nel 2016 proiettò Moreno sul palcoscenico mondiale e che da allora continua a produrre molto in campo scientifico ma anche politico-amministrativo, con l’impegno preso da alcuni sindaci (Parigi, e più recentemente Milano) di far evolvere la città nella direzione di un sistema di unità spaziali e funzionali nelle quali le dimensioni chiave per il cittadino -vita, lavoro, commercio, assistenza sanitaria, istruzione e intrattenimento- siano accessibili entro 15 minuti a piedi o con i mezzi pubblici.

Quella città è suggestiva, e a suo tempo mi colpì molto. Gli urbanisti con i quali ne parlai (il primo fu Gabriele Rabaiotti) me ne spiegavano gli effetti positivi di ri-civilizzazione dello spazio urbano, che altrimenti rimane un campo di gioco troppo grande e indifferenziato per le persone, una semplice convenzione. L’altro effetto ineludibile per un’amministrazione che entri in questa logica, sarà finalmente la necessità di provvedere a un sistema di trasporto multimodale degno di questo nome e pubblico, ossia universale e -aggiungo- alla portata di tutti.

Una cosa che mi lasciava perplesso, invece, era la scelta della soglia dei 15 minuti. Mi chiedevo da quale “numero naturale” o bioritmo o elemento etologico potesse discendere. E mi pareva singolare che in agglomerati urbani dove -anche in Italia- una persona normale può passare ogni giorno ore intere negli spostamenti essenziali si potesse fissare un tempo di movimento così irrealisticamente breve. Temevo che quell’obiettivo tanto alto avrebbe infine fatto dismettere il progetto.

Nel mio ragionamento c’era del vero (non a caso negli anni successivi alcuni urbanisti hanno proposto limiti diversi, sia sopra che sotto i 15 minuti) ma anche qualcos’altro non andava: un certo dirigismo e schematismo rispetto alle ragioni immateriali che possono rendere uno spostamento lungo più gradevole di uno corto, se ci sono condizioni a contorno che lo giustifichino. Oppure ancora la non considerazione del fatto che lo “schema 15 minuti” non può valere quando l’obiettivo da raggiungere è lontano e logisticamente scomodo ma unico come un museo o un teatro, che sarebbe sensato raggiungere anche se si trovasse in un’altra città, a ore e ore di distanza.

Speravo di cogliere dalla voce del professore qualche risposta ai miei informi dubbi, e puntualmente l’ho ricevuta. Sul finire della lectio, Moreno ha introdotto un’altra dimensione della “sua” città, proprio a partire dalla misura dei tempi: in sostanza non conta in quanti minuti si può raggiungere una meta, ma quale è la meta in questione, e ancora di più le condizioni di “accoglienza” (così ha detto) che si incontreranno nel luogo di destinazione, ovvero il tessuto umano e sociale che ci attende al termine del nostro spostamento. La ex città dei 15 minuti diventa così la città che accoglie l’abitante o il visitatore, chi si muove per bisogno, per diletto o per lavoro, gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, gli autoctoni e gli immigrati nel modo umanamente migliore. E solo secondariamente con i tempi di percorrenza più brevi possibile.

Adesso mi diventava tutto più chiaro, e per completare il quadro dovevo solo assegnare a “qualcuno” la cura delle sei dimensioni della cittadinanza: vita, lavoro, commercio, assistenza sanitaria, istruzione e intrattenimento. La risposta, data la mia esperienza di quindici anni in Banca Prossima, è che il soggetto che si occupa di tutto questo è l’altra economia: sociale o in questo caso veramente civile, perché impegnata a garantire le condizioni minime di qualità della vita dei cittadini. Per restare nella prospettiva Moreniana, nessuno considera il contributo quotidiano dell’economia sociale dal punto di vista del tempo: vi siete mai chiesti quante giornate di disfunzionalità fa risparmiare il non-profit ai cittadini di Milano? E dunque, quanta parte dovrà necessariamente avere il Terzo Settore nel realizzare la città di Moreno prima o seconda versione?

Chi legge questa pagina -per qualche destino ci troviamo sempre entre nous- lo sa meglio di me. Ma se foste stati con me in Bicocca, avreste condiviso il dispiacere di non sentire neanche un riferimento alla relazione tra “noi” e la città, quale e quanto funzionale essa sia. Ogni città di questo mondo.

Io trovo che un urbanista (tanto più se come Moreno non ha una formazione specificamente tecnica e può quindi guardare le cose con il necessario distacco interdisciplinare) dovrebbe cominciare osservando, oltre al reticolo delle strade, agli spazi verdi e ai vincoli idrogeologici o storico-artistici, il tessuto di organizzazioni del Terzo Settore. Quella nuova mappa trasformerebbe lo spazio in spazi e gli esseri umani da anagrafiche di un elenco a cittadini. Il Terzo Settore è l’insieme dei problemi e delle soluzioni che è stato possibile portare, con un modello dove careneeder e caregiver si scambiano continuamente di ruolo. E questo ecosistema sociale, in entrambe le dimensioni di impresa produttiva o di puro associazionismo e volontariato, è statutariamente dedito a realizzare come primo obiettivo il massimo vantaggio di chi vive nella città o la frequenta per lavoro, per piacere o per caso. Dunque, un insieme di persone liberamente organizzatesi in centinaia di anni per fare quello che il professore vorrebbe fare. Ma questi alleati naturali e necessari, che qui a Milano sono così tanti e così incisivi, quasi non sono stati citati.

Ho il massimo rispetto per il lavoro di Moreno, che ha anche il merito involontario di averci mostrato quanto il Potere, nelle sue tante forme, è lontano da “noi” del sociale. E quanto purtroppo noi del sociale restiamo lontani dal Potere.


Marco Morganti è Senior Advisor for Impact, Intesa Sanpaolo