Siamo le parole che usiamo
di Vera Gheno
Pubblicato in AES ARTS+ECONOMICS N°8, Giugno 2020
In questi giorni di grandi timori e tensioni sta girando, su Facebook, un post condiviso da numerosi miei contatti: «L’idea è quella di occupare Facebook con l’arte. A chi mette “mi piace” verrà assegnato un artista e dovrà inserire un’opera di quell’artista, insieme a questo testo». Non amo le catene e non ho partecipato nemmeno a questa, ma ne intravedo un senso: è una sorta di squatting pacifico del social network, nato con l’idea di contrastare il discorso imperante, che chiaramente gira attorno ad argomenti meno piacevoli. Proprio questi post hanno richiamato la mia attenzione sull’arte e sulla sua (rilevanza nella) comunicazione, nonché sull’indubbia relazione tra prodotti artistici (di ogni sorta) e parole.
Le parole possono sembrarci meno “artistiche”, di per sé, rispetto ad altre forme espressive (a parte quando non sono esse stesse forme d’arte), ma a dire il vero, pensandoci, le parole sono sottese a ogni genere di espressione, perché oltre che essere forma artistica indipendente, servono anche per comunicare l’arte, a tutti i livelli. Cosa facciamo quando vogliamo esprimere la bellezza di un dipinto, una statua, una performance, un brano musicale? Ne parliamo. E dalla qualità e dalla scelta di tali parole dipende anche la possibilità di allargare la fruizione di un prodotto artistico a nuovi spettatori, che magari, attirati dalla descrizione, vi si potranno accostare con maggior curiosità e apertura mentale.
La parola, insomma, è una competenza trasversale a ogni tipo di conoscenza; e ogni tipo di conoscenza necessita della parola per essere trasmessa, quale che sia la sua natura (scientifica, umanistica, artistica). Per comprendere a fondo questo concetto occorre soffermarsi, a mio avviso, su un aspetto: la centralità della parola per l’umanità dell’essere umano, mi si perdoni il bisticcio.
Mentre abbiamo molte caratteristiche in comune con gli altri animali che vivono su questo pianeta, i quali a loro volta comunicano in maniere anche molto sofisticate, solo noi umani abbiamo il dono (o il fardello) della parola. Dono, perché ci permette l’astrazione e la modellizzazione del pensiero e anche di vivere una diacronia, pensando al passato, al presente e al futuro (cosa che, per quanto sappiamo, è preclusa quasi completamente agli animali, che tendono a vivere in un eterno presente: su questo argomento, invito alla lettura del bel volume di Federico Faloppa Brevi lezioni sul linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2019); fardello perché talvolta forse passiamo sin troppo tempo a pensare al passato e al futuro, perdendoci, talvolta, l’importanza del presente.
Ogni volta che apriamo bocca compiamo simultaneamente tre operazioni, volenti o nolenti: quella di atto di identità personale, cioè di dichiarare chi siamo o chi aspiriamo a essere; quella di atto di identità collettivo, per cui ci identifichiamo come parte di una (o più) tribù; quella di esternare la nostra visione del mondo, andando così a influire eventualmente anche sulle visioni del mondo altrui. Ogni nostra parola, dunque, non è mai solo una parola, ma è quasi una sorta di “gancio” che porta a un grappolo di significati, dei quali ognuno di noi parlanti è più o meno consapevole. La consapevolezza, chiaramente, può aiutare a usare le parole in maniera più proattiva, più sensata, per scopi e finalità migliori.
Insomma, le nostre parole ci definiscono, e lo fanno mentre noi viviamo in mezzo ai nostri simili: quando ricordiamo la frase aristotelica “l’uomo è un animale sociale” teniamo conto del fatto che siamo “animali sociali” al punto che, in assenza di interazioni, nemmeno possiamo imparare a parlare. Per quanto, infatti, nel nostro cervello siano presenti delle strutture linguistiche innate, tanto per richiamare le teorie chomskyane, queste strutture non “si destano” se non sollecitate dall’intensa e costante interazione nei primi anni della nostra vita con altri esseri umani che ci parlano, ci rivolgono la parola.
Dunque, il cammino per arrivare alla parola, sia a livello di specie che a livello di singolo individuo, è stato ed è faticoso. Ciononostante, assistiamo sovente a fenomeni ricorrenti in molti esseri umani. Da una parte, arrivati a un certo punto della nostra vita diamo per scontata la competenza della parola e la usiamo, spesso, come càpita, senza farci troppo caso. Dall’altra, soprattutto se abbiamo continuato a studiare e abbiamo conquistato qualche forma di conoscenza preclusa ai più, iniziamo a… tirarcela. In altre parole, cominciamo a sentirci superiori a coloro che non hanno studiato, tanto, in molti casi, da disprezzare l’ambito della divulgazione (scientifica, umanistica, artistica), vista quasi come secondaria rispetto al “sapere duro e puro”, quello a cui il “comune mortale” non può arrivare. Questa, a mio avviso, è una forma assai deleteria di hybris, come dicevano gli antichi greci, ossia di tracotanza: ci sentiamo superiori perché sappiamo di più degli altri, e non avvertiamo alcuna necessità di occuparci, di quegli altri. Colpa loro che non hanno studiato, non hanno approfondito. Vanno abbandonati al loro destino perché non sono degni di noi. Ora, sappiamo bene come andava a finire per gli eroi greci che compievano l’atto supremo di hybris, ossia quello di ritenersi pari agli dèi: solitamente, venivano levati dal novero dei vivi in maniere piuttosto cruenti e raffinate.
Senza arrivare a invocare simili punizioni, ritengo che sia un preciso dovere sociale di chiunque abbia accesso a una forma esclusiva di sapere quello di condividerlo al pubblico più vasto possibile. Lo diceva Antonio Gramsci in una famosa citazione del 1916 alla quale io ricorro spesso: “Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri”. Quello che dice Gramsci è, nella sostanza, che morire gonfi di cultura come un granaio pieno fino all’orlo, portandosi quel grano nella tomba, non ha alcun senso: ogni persona che possiede un granaio dovrebbe sentire la necessità di offrire quel frumento ai suoi consimili, per aiutarli a loro volta a crescere, a diventare esseri umani migliori. E non lo dico affatto in una prospettiva pia o assistenzialista: ritengo, invece, che chi è geloso del proprio sapere contravvenga a leggi umani antiche e profondissime; penso che, in qualche modo, viva “a metà”.
Ho da poco scoperto, in un bel libro di Roberta Covelli sulla nonviolenza, Potere forte (Firenze, EffeQu, 2019), una citazione di Maria Montessori del 1949: “Ognuno, nella vita, ha una funzione che non sa d’avere e che è in rapporto col bene degli altri. Lo scopo dell’individuo non è di vivere meglio, ma di sviluppare certe circostanze che sono utili per altri. La grande legge che regola la vita nel cosmo è quella della collaborazione tra tutti gli esseri. Approfondire lo studio di questa legge significa lavorare per il trionfo della unione fra i vari popoli, e quindi, per il trionfo della civiltà umana”. A mio avviso, nell’idea di collaborazione tra tutti gli altri esseri rientra anche la necessità di condividere arte, cultura, bellezza, sapere, conoscenza, senza tenerseli per sé. La hybris legata all’aumento della conoscenza va dunque controbilanciata con la pietas, non nel senso di pietà o empatia ma piuttosto in quello di apertura, attenzione al prossimo.
Noi siamo le parole che usiamo. Ci deve importare se le nostre parole arrivano, oppure rimbalzano senza colpire il bersaglio. E questo dipende, in larga parte, non da chi c’è dall’altra parte ma da noi, dalle scelte comunicative che noi compiamo. Tolta la tracotanza, se prendiamo su di noi l’onere della comunicazione, compreso anche quello dell’eventuale fallimento, stiamo facendo a mio avviso un primo passo verso una comunicazione non più meramente performativa ma realmente generativa.
Chiedersi, dunque, cosa dobbiamo comunicare, perché, come e a chi è fondamentale, e possiamo appuntarcelo tramite le famose massime conversazionali di Herbert Paul Grice, che per l’appunto sistematizzano quanto accennato poc’anzi: la massima della quantità invita a calibrare la durata del nostro intervento, la massima del modo a renderlo il più chiaro possibile, quella della relazione a farci qualche domanda sul nostro pubblico e quella della qualità, per me la più importante, a parlare, se possibile di ciò che conosciamo bene e di cui siamo a nostra volta convinti. In questo modo potremo essere sinceri (truthful, dice l’originale inglese) e quindi suonare più convincenti agli occhi degli altri.
Il contesto artistico, peraltro, ha anche un indubbio vantaggio a livello di comunicazione: richiamando Francesco Sabatini, uno dei più lucidi linguisti italiani contemporanei, l’arte è l’ambito in cui la comunicazione può permettersi di essere massimamente implicita ed elastica (all’estremo opposto del continuum comunicativo avremmo i testi di legge, forzatamente espliciti e rigidi, in cui ogni parola non può che avere quel significato e non un altro). Di una poesia, al contrario, possiamo scrivere un’esegesi lunga un libro: questo vuol dire che in pochissime battute il poeta ha “sepolto” un intero mondo di significati, tutto da esplorare ed esplicare. E lo stesso vale per un quadro, una statua, un’opera teatrale, giusto per fare qualche esempio: al di là della face value, al suo interno si celano infiniti piani narrativi ed esegetici, tutti da spiegare, tutti da comunicare.
Chi altri, se non chi ha una comprensione del prodotto artistico che ha di fronte, può ambire a fare da cerniera tra lo spettatore e l’opera? Questo per me vuol dire che l’esperto può – o forse deve – costruire ponti tra l’arte e le persone, tra la cultura e le persone; ponti che concorreranno non solo a rendere raggiungibile il prodotto artistico e culturale, ma, in questo modo, potenzialmente anche a migliorare le persone stesse. Non solo i destinatari della comunicazione, ma anche i suoi (e)mittenti. È bene ricordarci che, per quanto talvolta “gli altri” possano risultare fastidiosi, non siamo monadi, non siamo isole – come ricorda John Donne, poeta seicentesco, in un suo componimento poetico – ma esseri relazionali. Penso che ambire a creare ponti con le parole, a fare, insomma, i pontefici (in senso letterale), sia uno dei compiti più alti ai quali possa venire chiamato un essere umano che ha avuto l’infinita fortuna di potersi arricchire in un determinato ambito culturale.
Vera Gheno è una sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, ha lavorato per vent’anni con l’Accademia della Crusca nella redazione della consulenza linguistica e gestendo l’account Twitter dell’istituzione. Attualmente collabora stabilmente con la casa editrice Zanichelli. Insegna all’Università di Firenze, al corso di laurea di Scienze Umanistiche per la Comunicazione, dove tiene da molti anni un Laboratorio di italiano scritto.
Ha pubblicato: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016), Sociallinguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello (con Bruno Mastroianni, 2018) e Potere alle parole. Perché usarle meglio (2019).