Tutta colpa del Paradiso
di Irene Sanesi
Quest’anno se n’è andato Francesco Nuti. Attore, regista ma anche cantante,
sceneggiatore, artista poliedrico, ha segnato la storia del cinema con un percorso molto classico -partendo dalla gavetta- e molto toscano (e italiano) -erede
di quella tradizione di umorismo profondo (che non è un ossimoro) e leggero
al contempo, con molti compagni di viaggio che hanno distinto un tratto e un
viaggio di cinema d’autore.
Sono diverse (come si usa dire in Toscana per indicare l’aggettivo “molte”) le
considerazioni che scaturiscono dalla presa in carico della sua eredità. E tutte
sono straordinariamente adeguate al ragionamento che intendo dipanare in questo numero di ÆS dedicato a governance e sostenibilità economica della cultura.
Tutta colpa del paradiso è il titolo di un film del 1985 che vede Francesco Nuti
regista e attore protagonista, del fratello Giovanni le musiche, la sceneggiatura
realizzata insieme a Vincenzo Cerami e Giovanni Veronesi.
Girato in Valle D’Aosta in mezzo a un paesaggio di straordinaria bellezza, racconta la storia di Romeo (la vena romantica di Nuti immancabile) che uscito dal
carcere si mette alla ricerca del figlio abbandonato dalla madre e dato in adozione
ad una coppia (Roberto Alpi e Ornella Muti), che si rivelerà agli occhi di Francesco/Romeo il migliore futuro per il piccolo Lorenzo. Un film malinconico,
ironico, struggente, nel quale i silenzi contano quanto le battute e forse di più e il
paesaggio delle Alpi è come una immensa quinta teatrale che incastona la storia.
Prima considerazione.
No ad approcci riduzionistici. Si ad approcci complessi. Verso le organizzazioni teal. La lezione di Nuti ci consegna questo primo insegnamento. Complesso non significa necessariamente complicato quanto intrecciato (cum-plexus).
Che la cultura non è solo la conservazione del passato, ma la produzione di
contenuti e messaggi nel presente è un fatto. Un fatto ancora troppo poco riconosciuto. Nell’immaginario collettivo vi sono i musei, i parchi archeologici,
le gallerie, i grandi concerti e tutto quanto ruota attorno alla macchina turistica
e commerciale. Non è sbagliato, ma è chiuso. È come avere un approccio riduzionistico se fossimo dei fisici. È necessario abbracciare la complessità come
filosofia di sostenibilità, come forma mentis e applicare le sue regole (spesso più
deroghe) ai modelli organizzativi.
Non è pensabile soltanto la piramide gerarchico/funzionale (fattibile con una serie
di accortezze per enti di grandi dimensioni, in Italia per lo più i musei statali), van-
no immaginati format nuovi con organigrammi più orizzontali alla stregua delle
teal organization. Ho trattatto questo tema in un articolo su Artribune nel 2022.
Teal non è solo un colore (verde acqua) ma anche un modello organizzativo che ha il fine di integrare le risorse di un’impresa – umane, patrimoniali, economiche e finanziarie, relazionali e reputazionali – nel perimetro (che assomiglia più a una corte dei gentili che a un hortus conclusus) di tre valori fondanti e trasversali. L’auto-gestione (self management) come capacità naturale di auto-organizzarsi con flessibilità e responsabilizzazione crescente; la pienezza (wholeness) quale obiettivo di autenticità, fiducia e inclusione; e il proposito evolutivo, un con-
cetto che supera il mantra del miglioramento continuo propinatoci da anni di certificazioni di qualità, per porre l’organizzazione nel villaggio globale in cui ci troviamo e farle apprendere come -avrebbe detto Tarkovskij- abitare il tempo.
Quanto siamo lontani dai modelli fortemente gerarchizzati, in stile MIC, piuttosto che orizzontali/progettuali, habitus di molte ICC? Qui, più che misurare le distanze tra modelli scelti e perseguiti nelle prassi con tutte le loro degenerazioni (si pensi a come la parola stessa “burocrazia” abbia assunto nel tempo un’accezione negativa), verrebbe da dire che dovremmo misurare il committment.
I cinque colori utilizzati da Frederic Laloux nel suo Reinventing Organizations: An
Illustrated Invitation to Join the Conversation on Next-Stage Organizations 1
(2014) illustrano il percorso evolutivo da red (gli albori della civiltà) a teal (le organizzazioni evolute contemporanee), attraversando una storia variopinta di amber (da 4.000 a 400 anni fa, caratterizzata da organizzazioni conformiste e gerarchiche), di orange (un modello orientato a obiettivi e risultati) e di green (l’ultima evoluzione all’insegna della sostenibilità).
Lo spazio (temporale) a cui sono ferme nei loro modelli organizzativi le organizzazioni culturali – poco importa se pubbliche o private, profit o no profit, e qui escludo volutamente le benefit – fa dannatamente riflettere. Poco importano le sfumature di giallo.
Seconda considerazione.
La sostenibilità e l’impatto (anche economici) si vedono dai titoli di coda. Nuti
lo sapeva bene. Ne scrivevo nell’editoriale su Artribune (07/2019) Cultura con capo e coda. Che abbiamo bisogno di qualcuno a capo (imprenditori e manager) delle imprese culturali lo si capisce e basta. Anche se i nomi sono spesso troppo piccoli quando scorrono veloci sui grandi schermi del cinema o su quelli piccoli di tablet e smartphone, abbiamo chiaro che dietro la realizzazione di un film e affini vi è un mondo. Un mondo di competenze, una popolazione di tecnicalità, un numero enorme di addetti ai lavori. La cultura conta dunque, la cultura è un mercato nel quale non ci si improvvisa. Non è un divertissement. Né uno spazio economico (dal punto di vista lavorativo) nel quale si possa pensare di andare avanti con il supporto del solo volontariato (prezioso, ma talune volte fuorviante sotto il profilo strategico) o del solo contributo pubblico sotto il profilo dei proventi. Il cambio di paradigma avverrà quando le imprese culturali diverranno appetibili per nuovi soci (di capitale), fondi di investimento, spin off, M&A.
Oggi siamo di fronte a un bivio: voler permanere insistentemente e pervicacemente dentro l’apparente comfort zone dello status quo o piuttosto ripensarsi in chiave economica, di investimento, di ricerca e innovazione, di partnership, di internazionalizzazione, ecc. Per riuscirci è fondamentale che emergano figure capaci di esprimere nuove leadership, ispirate e formate al
dispositivo di competenze trama attraversando quel confine sempre più chiaro tra una gestione efficiente e una gestione strategica.
Dentro questo ragionamento che punta a valorizzare i talenti e i ruoli, i vari ambiti della cultura hanno molto da apprendere dal modello organizzativo e di governance del cinema e della musica, a partire dall’attenzione al copyright fino alla definizione dei ruoli e delle professionalità secondo una logica che spiego nella
considerazione a seguire (la terza) in cui la specializzazione è un valore come
tessera di un mosaico. È l’arte musiva quella da mettere in campo combinando
e orchestrando (anche l’immagine polifonica è illuminante) i profili dei singoli (i
nomi dei titoli di coda) grazie alla capacità di guida con una visione e uno stile (la
scelta della cifra artistica è fondamentale).
Su questo c’è ancora molto da fare.
Terza considerazione.
NI agli specialismi. SI ad una cultura politecnica e polifonica.
Le specializzazioni sono il frutto di una serie di scelte (a partire da quelle del
sistema formativo superiore e universitario) e di evoluzioni del mercato per cui
oggi, un po’ come accadeva per la medicina decenni fa, possiamo trovare su
un set figure con compiti estremamente precisi come l’assistant script supervisor, colei o colui che controlla che tutto sia coerente. Mi sono andata a guardare i titoli di coda di Tutta colpa del paradiso ma non sono riuscita a scovare
questo profilo. Può darsi sia una mia mancanza di buona vista o semplicemente
a metà degli anni ‘80 questa figura si chiamava sicuramente in italiano e chissà se
rivestiva esattamente quel ruolo, o piuttosto era allenata/o già alle competenze trama. Nelle organizzazioni culturali piccole e destrutturate le competenze trama
sono vitali, in quelle grandi e strutturate lo sono altrettanto, in questo caso se
coincidono con le figure apicali e tengono insieme: competenze, tecnicalità,
relazioni, visione d’insieme e visione di medio lungo periodo, credibilità e
fiducia. In fondo il ruolo di un regista me lo immagino così, in particolare penso
a parole come credibilità e fiducia, sentimenti fondamentali perché una persona
-per quanto sia un attore e quindi predisposto a recitare una parte- possa mettere
nelle tue mani la propria vita, non solo professionale.
Quarta e ultima considerazione.
Oltre lo storytelling: il ricordo deve trasformarsi in memoria.
Quando siamo coevi di grandi artisti bisogna accorgersene. Celebrarli ex post
non basta. È fondamentale coltivarne la memoria collettiva, renderli influencer
loro malgrado, testimonial di carriere positive sfatando stereotipi ancora radica-
ti secondo cui lavorare nella cultura è mestiere di serie … (decidete voi quale,
escludendo la A, parafrasando il paragone per eccellenza del mito italiano: il
calcio). L’Italia dispone di tesori che ci rendono un paradiso, che non ha colpe
però. Siamo noi a doverci assumere le responsabilità della cura, della gestione,
della valorizzazione e promozione, della comunicazione. E, non secondariamente, della governance e della sostenibilità economica.
Sandro, il polmone gode, dice ad un certo punto col sorriso stampato in faccia, rivolgendosi ad Alessandro il padre adottivo di suo figlio. E così, diverse decadi
orsono, c’era già un artista toscano che praticava e comunicava la sostenibilità,
la resilienza, l’accettazione dell’altro. Scegliendo i luoghi, i personaggi e le storie.
Andando spesso controcorrente, come la cultura vera sa fare. Non a caso nel
secolo scorso sono nate le Avanguardie. Bisognerebbe oggi recuperare senso
e consapevolezza di ciò che distingue le Avanguardie dalle Accademie, anche
in tema di governance e sostenibilità economica, senza continuare ad utilizzare
modelli vecchi e soprattutto inadeguati, avendo il coraggio di osare (di fare e di
essere più avanguardia), di cambiare paradigma.
Quirino Principe, magistrale musicologo ma anche traduttore eccelso (a lui se
ne deve la fortuna nella versione italiana) de Il Signore degli anelli, parla di musica
forte (non di bella musica, musica di qualità, musica eccellente) per rappresentare
(versus musica debole) la musica vera, autentica, capace di lasciare il segno.
Francesco Nuti era forte, fortissimo.
Irene Sanesi è Dottore commercialista e revisore legale, è partner di BBS-Lombard. Esperta in economia, gestione, fiscalità e fundraising della cultura e del Terzo Settore, svolge attività di consulenza e formazione in tali ambiti. Partecipa a convegni, talks, workshop, è autrice di pubblicazioni di management culturale. È stata presidente del Centro Pecci di Prato e dell’Opera Santa Croce di Firenze.
Ricopre incarichi in fondazioni ed enti, è docente di strategie di fundraising nel Master della 24 Ore Business School e della Fondazione Feltrinelli.